A URI

tanto tempo fa capitai per caso a monteleone roccadoria, che è un paese piccolo piccolo in cima a una collina ripida e conica; proprio in cima in cima c’è un piccolo campo di calcio e c’erano bambini a giocare; uno di questi tirò molto alto e il portiere gli gridò, vedendo la parabola del pallone: ”eh, a uri mì”; uri è un paesone a valle, a circa mezz’ora di macchina;

che c’entra questo? boh, non c’entra niente, salvo che in cuor mio io non so dire auguri, però da quel casuale pomeriggio dire ‘a uri’ mi piace, sia in senso augurale, cioé siate capaci di volare, sia in senso dispettoso, cioé andate a quel paese;

ma la ragione di fondo di questo cruccio è che mentre ho sempre custodito in modo religioso il diritto intimo alla speranza, ho sempre avuto in sospetto la dichiarazione formale degli auguri: auguri di che, infatti? in genere di buone feste, ovvio; ma questo muove il sospetto che i giorni comuni possono anche fare schifo, e che non ci sia niente da fare se non covarne l’inutilità o la depressione; con gli auguri ci si fa regali e si calcola il contributo sul pil, in quanto nei giorni comuni ci si deruba ed imbroglia; si va in giro fuori città, poichè nei giorni comuni si è condannati alle mura di casa, a comandi odiosi e ad orari che decidono ogni passo; eccetera;

bene, io sinceramente desidero per me, per i miei cari, e per chi ne ha bisogno di più oggi e sempre, la capacità di speranza, e di poterla avere nell’anima e condividerla tutti i giorni del tempo, in quanto possano essere vissuti come benedetti da dio, prima di ogni altro da chi ha come casa solo l’orizzonte

Gian Luigi Deiana

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