DIARIO DI UNA BICICLETTA: il giro della Sardegna in milleduecento chilometri – di Gian Luigi Deiana

DIARIO DI UNA BICICLETTA: il giro della Sardegna in milleduecento chilometri

di Gian Luigi Deiana

Perché una bicicletta possa scrivere un proprio diario è necessario che sia vecchia: le bici nuove infatti non hanno mai visto alcuna strada e non hanno niente da narrare, e quindi non sanno scrivere.

Un racconto di bicicletta presuppone invece una biografia della bici: non necessariamente la si deve raccontare, tuttavia una presentazione è sempre un atto di cortesia: a suo modo, si tratta della tua compagna di giorni che non vorrai dimenticare.

Quando mi sono convinto di fare per intero il giro perimetrale della Sardegna, il più litoraneo possibile stando alle strade segnate sulle carte o da me conosciute, ero già al secondo giorno dell’esperimento e a circa duecento chilometri da casa.

Era lei che mi portava, my bike, radicando la tentazione prima che io avessi modo di rifletterci un poco.

Lei: in realtà in casa ospito due bici gemelle, e nel giro dell’Isola a un certo punto ho dovuto chiedere aiuto anche all’altra per via dello sfracassamento dei raggi di una ruota della prima.

Quindi vi è persino una biografia gemellare: la gemellatura si compì una quindicina di anni fa, quando babbo e figlio fecero insieme un biglietto ferroviario internazionale e puntarono sulla Scozia, presi da una bomba d’acqua a lione dopo una vertiginosa discesa da Modane verso il Rodano, sfrecciando di notte sotto Notre Dame e la Torre Eiffel, soggiornando a Canterbury e a Swansea con colazioni di lardo e fagioli, girando Londra da Brixton a Notting Hill, e Glasgow e Carlisle, Belfast, Dublino, e la Costa dei Giganti su nell’Ulster, in cinquanta chilometri di pioggia con in mente la quinta copertina dei Led Zeppelin, e su un traghetto per il Galles beffando una vigilissima operatrice marittima di sua maestà mentre sgraffignavamo una bellissima scodellina coi manici.

E facendo come matti tratte come Calais-Boulogne in Normandia e Annecy-Albertville alle falde del Monte Bianco, in solo due settimane.

Le due magnifiche sorelline sono bici adottive, cioè erano di seconda mano.

La prima esordì nei pascoli del gregge durante pomeriggi di scuola e la seconda facendo bella figura in passeggiate di primavera.

Poi le strade cambiano: ed insieme finirono per farsi tanta silenziosa compagnia per anni e anni, trenta o quaranta ormai e in strada sempre più raramente.

Qualche tempo fa provai a togliere polvere e ruggine dalla sorellina più laboriosa e attempata, quella dei pascoli di tanto tempo fa.

Era pallida e stinta e la verniciai di giallo, poi la misi in strada per una decina di chilometri, più per una specie di gratitudine per lei che per me stesso.

Scendemmo dalla porta di casa fino alla foce del Tirso, il fiume che vanta la maggiore lunghezza della Sardegna.

Una volta lì dovetti constatare con sconcerto che la foce non c’era: era sovrastata da un banco di sabbia e il fiume sembrava essersi arreso.

Piantai la bici là sopra su quella foce temporaneamente morta, feci una fotografia a lei e al fiume ed attraversai il banco a piedi.

Sentii una specie di premura per come ci eravamo ritrovati noi tre, la bici nel suo nuovo fulgore, il Tirso estenuato dalla pianura ed io nella mia incertezza, e fu allora che mi balenò in mente l’idea di fare il giro dell’Isola, da una foce all’altra dei nostri piccoli fiumi.

A parte i fiumi propriamente detti, la Sardegna è segnata da numerosissimi corsi minori, anche piccolissimi ma denominati immancabilmente dagli abitanti locali ‘riu mannu’, rio grande.

Ce ne sono a decine ed è una curiosa consuetudine toponomastica, considerando che in realtà non sono nemmeno fiumi.

Però una mezza dozzina di corsi d’acqua propriamente detti cerca di fare il proprio dovere, qua e là.

Ma le foci, tra banchi di sabbia, movimenti di dune, golene sterminate quasi perennemente in secca, lagune e labirinti di canali e stagni, le foci invisibili sono il problema: a parte il Temo, che finisce la sua corsa a Bosa, in genere abbiamo fiumi ingoiati malinconicamente prima del mare.

Al Tirso feci una specie di prova, pedalando dalla fanghiglia dei tratturi sul lungofiume verso la linea di costa volta a sud, fino allo stagno di Marceddì; una volta fuori dai campi di pesarìa per un poco le ruote schizzarono ancora tracce di fango, ma in capo a un’ora o due mi ritrovai davanti alla chiesetta bianca del villaggio.

Mi misi a osservare le installazioni di Capo Frasca di fronte, con quella palla bianca di radar e le reti dell’interdizione militare tutto intorno, e decine di barche a cullare la loro nenia.

Poi tornai a casa.

Mentre pedalavo pensavo a dove sarei potuto arrivare entro sera se avessi invece continuato lungo la costa: Porto Palma, Funtanazza, o Piscinas, o addirittura Ingurtosu… Buggerru magari.

Oh no, troppo troppo lontano Buggerru: non sono così scemo.

Il venti giugno, cioè due mesi fa, sarebbe tornato il mio compleanno, esattamente come il solstizio.

Dovevo compiere sessantasette anni di lì a qualche giorno e mi sovvenne la tentazione di concedermi il mio solstizio fuori da tutto: ignorare i miei compleanni è sempre stato un imperativo per me, ma come stavolta?

My bike!

Diedi uno sguardo alla carta stradale, puntando l’esame direttamente su Capo Frasca, dove ero arrivato appena prima.

Contai sessantasette chilometri da lì e vidi con sorpresa e con gioia che si arrivava esattamente a Buggerru.

Marceddì-Buggerru, sessantasette chilometri per sessantasette anni, da uno storico villaggio di pescatori a uno storico villaggio di minatori, più i trenta e passa chilometri appena compiuti quel pomeriggio dalla foce del vecchio Tirso fino a Marceddì: cento chilometri in tutto.

Recepii la cosa come una scrittura del destino e pensai che dovevo ubbidire.

La mattina del diciannove ero in macchina verso Marceddì con la bici nel cofano.

La tirai giù davanti alla chiesa e mi misi in sella verso le nove, con l’immagine di Capo Frasca che si specchiava nella luminosità tra le barche.

Si chiama ‘Costa Verde’: delinea un territorio che, se si prescinde da insediamenti balneari recenti, è praticamente deserto.

Luogo di approdi e fughe ai tempi dei Mori e delle piraterie, disseminato di cicatrici minerarie con il piccolo fiume di Piscinas rosso di bauxite, con di là e di qua Montevecchio e Ingurtosu e lo scenario maestoso delle grandi sabbie davanti.

E le dune, che interrompono la percorribilità della costa e impongono una lunga risalita verso la strada statale di Arbus, dalla gola di Ingurtosu segnata da laverie e vecchi macchinari pieni di antichi sudori e di ruggine alla storica cantoniera di Bidderdi, desolatamente muta prima della grande discesa verso Buggerru.

È davvero difficile cogliere con la mente lo spirito di questo luogo, sorvolandone l’immobilità e il mutamento per come questi si sono rincorsi nei secoli.

Ingurtosu deve il suo nome allo spettro dell’ingoiamento, aperto dalla montagna fin giù verso le sabbie ed il nulla.

La memoria recente presenta per strada cippi di memoria per i minatori caduti nel lavoro, e in cima al borgo ormai disabitato una stele eretta per la gloria di un imprenditore minerario venuto quaggiù dall’inghilterra, Thomas Allnutt Brassey.

Si dice che questo signore, titolare del bacino minerario fin dal 1899 e venerato quaggiù, sia poi morto a Westminster investito da una delle prime automobili sulla scena della modernità: anche questo conferma il suo destino di pioniere.

Nei primi chilometri della mattina mi ero fermato a fotografare le carcasse di un paio di vecchi scarponi, abbandonati al lato della strada.

Era la mia prima fotografia di soggetto umano quel giorno: dedicai alla stele di lord Brassey la seconda, e tirai verso Bidderdi nel silenzio del mezzogiorno.

Ero a Buggerru alle quattro del pomeriggio e tra il prologo della foce del Tirso e il molo di questo vecchio porto minerario, teatro di tante cose tra le quali un eccidio di minatori in sciopero nel 1904, avevo fatto i miei primi cento chilometri.

Passai su due bar tra gente con la mascherina sulle ventitrè e con la mia sete che non passava, ma poi fui attratto dalla scena del tramonto e andai al molo.

È davvero incredibile la luce del tramonto sul piccolo fiordo calcareo in cui è rifugiato il paese, e per di più quello era il lungo tramonto del solstizio, come una specie di immensa celebrazione sul mare silenzioso.

Cercai da dormire, e il gioco del sonno si rivelò alla mattina col suo rovescio: l’imperativo di continuare, almeno per un altro giorno.

Il proposito di tornare a casa si era invertito da solo: ero inebriato, più dalla tentazione della strada che dalla stanchezza.

l venti giugno era davvero il mio compleanno; feci come volando il lungo rettilineo dal belvedere della galleria Henry fino a Cala Domestica, nel tepore della mattina luminosa e deserta.

Poi la strada saliva per ridiscendere in tornanti secchi nella vertigine di Masua.

C’era una squadra di operatori a decespugliare il più splendido chilometro di strada della Sardegna: quando mi fermai per fare una fotografia mi comparve davanti alle ruote il corpicino di un uccellino straziato dai decespugliatori.

Feci due foto, una alla vita e una alla morte, e arrivai a Nebida per le dieci.

Nebida è un luogo spettacolare, con le laverie e le rocce rosse e il panorama di Porto Flavia e dei grandi faraglioni nel mare azzurro.

La discesa a sud spalanca la visione di una sabbia sterminata fino al promontorio di Portoscuso: era il punto dove contavo di arrivare, ma mi sembrava troppo presto per fermarmi lì.

Feci la litoranea, che terminava a lato del cimitero interrompendosi sullo scenario folle del complesso industriale di Portovesme.

Vecchi bunker di guerra convivevano con grandi impianti di pale eoliche, labirinti di tubi, polvere e ciminiere, e un acre odore di cloro pervadeva l’aria.

Attraversai questa specie di inferno senza vedere nessuno, nel gracidio sempre più forte delle cicale.

Recuperai la linea di costa, passai Matzaccara tra vigneti di carignano e coltivazioni di ortaggi e puntai su Sant’Antioco;

Feci l’istmo per l’isola verso le tre, sulla pista ciclabile di bitume bruno che è stata stesa sopra l’antica ferrovia, e mi rifugiai nella veranda di un bar sul lungomare.

Chiesi birra e le ragazze al banco mi fecero l’elenco delle marche.

Da quel momento decisi di tagliare corto: Ichnusa, la musa della mia sete di bicicletta.

Non avevo tempo di fare l’intenditore di etichette di birra.

Mi frullavano in mente invece due malinconie nuove: la cantoniera abbandonata di Bidderdi e la ferrovia sepolta di Sant’Antioco; le malinconie arrivano come semi d’erba: a volte mettono radici.

Le ragazze piuttosto: non ero preso dalle solleticazioni del vecchio Aqualung, seduto sulla panchina di un parco a guardare le ragazze con cattiva intenzione.

Ma c’erano molte ragazze a Sant’Antioco sul lungomare, e un poco mi meravigliò la composizione di pantaloncini cortissimi e mascherine e la necessità di una visibile reazione corporea al cosiddetto lockdown, la primavera del nostro scontento.

Del resto anche la mia attrazione per la strada era una reazione ai mesi della quarantena, e l’Ichnusa era la mia musa vociante dopo i mesi del silenziamento generale.

Al contrario di quello che avevo supposto fino allora, quando si pedala per molte ore a temperature sui trenta gradi non si percepisce più di tanto lo stimolo della fame.

Prevale la sete e la birra viene desiderata più di ogni altra cosa.

Ma con un tale dispendio di energia la birra, oltre che dissetare nutre senza ubriacare, e si può arrivare a sera quasi senza cibo.

La birra è stata la prima forma di salario nell’organizzazione complessa del lavoro umano.

Due erogazioni al giorno, nello schiavismo dell’antica Mesopotamia, come salario di nutrimento più che come bevanda voluttuaria: due erogazioni al giorno per trenta giorni: così nacquero insieme, nelle mani dei sacerdoti babilonesi, il salario, il calendario e la matematica sessagesimale.

Era presto sul lungomare di Sant’Antioco, solo le quattro del pomeriggio.

Ma puntare subito su Giba o su Sant’Anna Arresi mi parve un gioco arrischiato con quel caldo privo di vento.

Essendo indeciso sul che fare mi misi a consultare il sito dell’Arst, l’azienda regionale degli autobus.

Scoprii con piacere e con vivo interesse che garantisce il trasporto delle biciclette, che dispone di una rete efficiente e capillare e che trovi gli orari di ogni fermata sul sito con tempestività e precisione.

Scoprii così che se avessi continuato per litoranee con la bici non avrei avuto necessariamente bisogno della macchina per gli eventuali trasferimenti da casa, e che avrei potuto fare scrupolosamente il giro dell’Isola, anche con tutte le intermittenze temporali determinate dalle incombenze domestiche, anche solo servendomi dei pullman di linea: così cercai da dormire a Carbonia, verso la vecchia miniera di Serbariu ora circondata da grandi negozi, e la mattina dopo ripiegai in treno su Cagliari, poi presi il treno fino a Marrubiu e mi buttai in bici fino a Marceddì per recuperare l’auto.

Ero a centoottanta chilometri di pedali e non mi restava che continuare: ormai ero in missione.

Nel rollio del treno mi passavano in mente alla rinfusa le immagini di quelle ore, come nel flusso di un film pasticciato.

Su un rettilineo verso Torre dei Corsari mi ero fermato per osservare il tracciato antico della strada, che dall’alto mi appariva travagliato e innocente.

Ma lì, sul tratto del nuovo tracciato in cui ero, c’era un bel muraglione di cemento armato su cui una mano devota aveva scritto in vernice che Satana ha i giorni contati.

Cercai di pormi la domanda, ma mi venne da fare pipì così verso il mare.

Qualche ora dopo trovai la stessa grafia di quello spray su un muraglione in piena discesa dopo Bidderdi, verso il bivio della colonia penale, ma questa volta la scritta diceva che Satana è in Vaticano.

Feci pipì un’altra volta, alla faccia dei mentecatti.

Da Sant’Antioco avevo mandato un aggiornamento a mia moglie.

Era stupìta che fossi addirittura arrivato lì e mi rispose che sono un pazzo: lo interpretai come l’augurio di compleanno e come un invito a continuare.

Molti miei amici quel giorno mi scrissero messaggi su quell’allegra follia: ‘tue ses maccu’ è infatti un magnifico complimento.

Un amico di Orotelli mi agganciò con un messaggio di compleanno e mi chiese un qualche titolo di canzone o poesia; gli dissi a bruciapelo Lee Marvin, ‘I was born under a wandering star’, e lui la mandò in giro quella notte.

Sono nato al solstizio, sotto una stella vagabonda, verso un luogo senza nome.

Così dopo un giorno di disbrighi domestici a casa tornai di nuovo a Carbonia e alla strada, come alla casa del sole nascente.

Dall’incrocio dell’istmo di Sant’Antioco presi la litoranea verso Porto Pino, risalii a Sant’Anna e di lì a poco fui alle reti di interdizione militare di Teulada.

Non si poteva accedere al Capo, quindi dovetti prendere la litoranea verso il piccolo porto di pesca, e di qui verso Capo Malfatano, Bithia e Chia.

La costa è davvero meravigliosa, ma osservavo già con apprensione l’altro capo del grande golfo, con Villasimius nella foschia a cento chilometri di distanza verso est, il sole nascente.

Mi fermai su un belvedere per qualche fotografia, ed apparve sotto di me un terribile albergo a più piani impiantato come uno stupro sulla roccia; si fermarono anche due giovani con un’auto di targa svizzera, sorrisero e mi offrirono una bottiglia di acqua fresca.

Non ne avevo bisogno e ringraziai, e fummo consolati per un po’ dalla nostra fortuita consonanza mentre osservavamo il mostro sconcertati.

Poi ci salutammo con un cenno e partimmo di nuovo.

In una lunga discesa dal promontorio di Malfatano la catena della bici venne via dalla guida dentata e finì per svellere dalla ruota due raggi.

Ormai dovevo procedere a piedi, ma ero pressochè arrivato a Chia e per di più in un ristorante circondato di gazebo e colorato di bianco e di azzurro.

Era presto e con la bici a posto sarei potuto arrivare a Pula, ma feci tesoro del contrattempo.

Entrai nella sala e constatai con stupore che non c’era quasi nessuno.

Era affidato a una signora bionda e gentile, che dall’accento e dai modi supposi fosse rumena o ucraina o comunque dell’est del sole nascente.

Era il covid ad avere dettato le nuove condizioni della ricettività sulle spiagge semideserte e mi venne tristezza a considerare la gentilezza di chi mi serviva.

Poi andai al bar sull’incrocio, dove passai almeno un’ ora in attesa dell’autobus a bere birra e a chiacchierare coi perdigiorno.

Mentre sopraggiungeva il pullman prenotai per il dopodomani un cappuccino, ma la cosa fu presa come uno scherzo.

Caricai in autobus la mia povera bici ferita, e qualche ora dopo ero a casa: avevo superato Chia, e a breve sarei entrato nella convulsione della statale.

Era giunta l’ora della bici di primavera, la sorellina elegante.

La strada era diventata una visione continua, e l’inebriamento era molto più forte della stanchezza.

In casa mi dissero dell’adrenalina e delle endorfine, come responsabili chimiche di questi giochi psichici, ma a me importava poco di queste sofisticate spiegazioni.

Anche la faccenda della birra che nutre senza ubriacare me la spiegarono con le malto-destrine, che a me sono ignote.

Quando mio figlio mi raccomandò di provvedermi dei ‘dispositivi’ necessari a chi va in bici chiesi dei chiarimenti, perché per me una bici consiste essenzialmente nelle ruote: mi disse che dovevo dotarmi almeno di un casco e io caddi dalle nuvole: non avevo mai pensato ai dispositivi anche per andare in bicicletta.

Ad ogni buon conto decisi di portarmi dietro un po’ di cambio e un leggerissimo sacco a pelo, come ai bei tempi.

L’indomani presi di prima mattina un treno e un autobus, e alle dieci ero di nuovo a Chia al bar dell’incrocio davanti al mio cappuccino.

Corsi di volata fino a Pula e arrivai a Sarroch dalla strada di campagna di Villa San Pietro.

Così potei ammirare tutta l’architettura di tubazioni e ciminiere della raffineria, fino alla sirena di mezzogiorno.

Vidi un alone nefasto in quell’immenso giocattolo, ma ormai ero in vista della città, frastornato dal traffico delle aree industriali e delle spiagge.

Quando arrivai in via Roma era appena l’una del pomeriggio, presi spaghetti lì al Porto e proseguii senza riflettere verso est.

Superai una a una le spiagge dal Poetto in avanti e mi fermai qualche ora dopo soltanto davanti a un cartello che spiegava: ‘Solanas, hamlet of Sinnai’: Solanas, frazione di Sinnai.

Scoprii così che hamlet vuol dire frazione, parte di qualcos’altro: un modo di essere e di non essere, esattamente.

Fotografai le cantoniere abbandonate ai rovi, e dappresso alla cantoniera di Solanas mi fermai a una rivendita di vini.

Chiesi una birra, e constatai che ce l’avrei fatta: erano poco più che le tre del pomeriggio, e Villasimius distava solo una dozzina di chilometri.

Feci a piedi la salita di Capo Boi, e rimasi incredulo a vedere la costa di Chia laggiù nell’ ovest, cento chilometri indietro percorsi in così poche ore.

Di qua invece, appena prima della discesa, un grande cartello indicava ‘Crabonaxa’, il vero nome di Villasimius.

Volai fino alla fermata degli autobus con un’ora di birra davanti.

Qui il bar ristorante era affidato a un giovane tunisino, e questa constatazione confermò quella che ne avevo ricavato al ristorante deserto di Chia il giorno prima: il Covid aveva imposto le sue condizioni alla stagione balneare.

Prenotai anche qui un cappuccino per il dopodomani, salutai e salii sul mio autobus per la città.

Due ore dopo ero di nuovo a casa.

Due giorni dopo alle dieci ero di nuovo laggiù, col compito preliminare di doppiare la punta di sud-est, Capo Carbonara.

La bici di primavera si era comportata meravigliosamente nel suo primo giorno di strada, coprendo in sole sette ore quei centoventi chilometri della costa sud, il largo arco azzurro affidato a una Madonna di Bonaria e intitolato agli Angeli.

Mi diedi tempo fino a mezzogiorno per fare in andata e ritorno la bretella che congiunge Simius a Capo Carbonara, cinque o sei chilometri in bici e un’ora a piedi sulle rocce davanti alla pacifica Isola dei Cavoli e al suo faro: provveduto a questo adempimento avrei potuto finalmente puntare a nord e iniziare la costa orientale.

Sarei potuto arrivare in giornata fino al Flumendosa, il secondo dei nostri fiumi, e cercarne la foce a più di quattrocento chilometri da quella del Tirso.

La storia dei quattro capi angolari della Sardegna non è meno complicata della loro geografia.

Capo Teulada, all’angolo di sud-ovest oggi sotto potestà militare, è stato per secoli il punto terminale di un feudo periferico e desolato, cui era riconosciuto il diritto di asilo per ricercati e condannati in fuga.

Ma anche Capo Carbonara, nell’angolo di sud-est, era il terminale geografico di una destinazione analoga.

Pur essendo adibito a rudimentali funzioni portuali relative all’imbarco di carbone, contrassegnava un entroterra altrettanto ostile rispetto a quello simmetrico di Teulada: il vasto e deserto triangolo di granito a valle dei Sette Fratelli aveva ospitato dal diciassettesimo secolo una colonia penale e si guadagnò probabilmente così il nome del castigo: ‘Castiadas’ appunto.

La colonia fu disabilitata negli anni cinquanta del novecento, quando fu pianificata una riforma agraria capace di ospitare i Pied Noir italiani espulsi dalla Libia: famiglie di Pantelleria, della costa sicula e di altri luoghi disparati.

Impiantarono a Castiadas vigne e serre di ortaggi e di fiori, trapiantarono zibibbo e vitigni di Salaparuta, impararono a convivere con pastori sardi sopravvenuti per necessità di pastura.

Sulla sagoma inquietante del vecchio carcere fecero un mondo nuovo.

Partii da Capo Carbonara che era ormai mezzogiorno.

Presi la litoranea che fronteggia in una lunga salita l’isolotto di Serpentara e infine mi buttai verso i territori penali di un tempo.

Ma dopo Cala Sinzias, brutalmente invasa da residences inospitali e inospitati, decisi di lasciare temporaneamente la strada di costa: non mi importava di Costa Rei e dei suoi exploit balneari, mentre nel crocevia di San Pietro vi era la minuscola scuola rurale dove avevo fatto il maestro da giovane, e poco più su il palazzo minaccioso della colonia penale dove avevo allora abitato per due estati e due inverni.

Avevo un debito con quei luoghi, con il ricordo di quei bambini di allora e con quelle desolazioni; un autobus che si fermava nella polvere ogni giorno alle due, e il rumore incessante del vento quando si alzava il maestrale;

Un’ala del vecchio carcere è stata ristrutturata per farne attività culturali, ma l’ala principale, con le celle nei sotterranei e le capriate del tetto abbandonate al marciume e alle intemperie, annuncia sconsolata una rapida macerazione.

L’accesso è precluso da un cancello sbarrato da tempo, e questo è tutto: per il carcere, per le anime dei derelitti che vi sono passati in contenzione, e per quei miei giovani anni di maestro di scuola.

Filai via senza controllare l’orologio, con uno zaino invisibile pieno di malinconie, e tornai sulla litoranea verso Capo Ferrato.

Da là sopra si spalancava la scena degli stagni, dai meandri terminali del perfido rio dei Sette Fratelli su fino alla golena del Flumendosa.

A Muravera entrai con la bici al cimitero per la tomba di un mio giovane amico di quel tempo, si chiamava Vittorio.

Poi passai il Flumendosa, o più precisamente il letto di ghiaia di un fiume completamente in secca sotto il vecchio ponte di ferro.

A Porto Corallo mi fu davvero difficile individuare quella che poteva dirsi la foce.

Risalii a Villaputzu, aspettai l’autobus delle cinque nella veranda di un bar con una birra grande davanti.

Avevo al fianco una sagoma di pecora in granito bianco e fui lieto di questa compagnia: ero ormai sulla soglia dei conquecento chilometri.

Ripresi la corsa da villaputzu la mattina del quattro luglio, dopo aver salutato la mia pecora di granito davanti al bar.

La sera avrei dovuto partecipare a un seminario sindacale nel magnifico borgo ogliastrino di Ulassai, e così poi per due pomeriggi successivi: prevedevo quindi di poter approfittare delle lunghe mattine per raggiungere il simbolico giro di boa del mio percorso, i mille metri di quota del valico di Genna Silana.

Lasciai Villaputzu verso le otto col proposito di fare un salto agli ingressi della concentrazione militare di capo San Lorenzo, nei pressi di Quirra.

Nel piccolo piazzale su cui si ergono i cancelli della Vitrociset, l’azienda di servizi militari del gruppo Leonardo stabilizzata laggiù da più di mezzo secolo, si erge proprio di fronte il più modesto cancello di un’azienda pastorale che propone invece formaggi e ricotta di produzione propria.

Anche dirimpetto alla grande palla bianca del radar si erge sulla collina conica di fronte l’antico castello dei Carroz, vecchio di ottocento anni.

La Vitrociset non durerà così tanto, e nemmeno le paranoie militari di cui è al servizio.

Ma i carichi di veleno, in terra, in cielo ed in mare, quelli sono destinati a durare davvero.

Portai queste tristezze fino al chilometro cento della vecchia Statale Orientale, appena prima di Tertenia.

Arrivai in paese verso le undici e presi un caffè in compagnia di una zingara che cercava di vendere collanine.

Era molto paziente e molto gentile e mi sembrò che da tanto tempo non incontravo una signora così mite.

Mi sentii come consolato nel salutarla, sebbene non ci fossimo scambiati propriamente alcuna parola salvo per il timido invito al banco del bar.

Così presi la salita verso la cantoniera di Genna ‘e Crexia, mentre si faceva quasi mezzogiorno.

La statale 125 è ricca di magnifiche case cantoniere, gravide di storia e ormai tutte tristemente in rovina.

Davanti a ciascuna mi fermavo come fossero delle specie di santuari e le ho fotografate una a una con un rispetto religioso per le storie passate che vi erano transitate davanti: sentivo un dovere di devozione, per tutta le gente e le bestie che vi avevano trovato rifugio nelle incertezze del clima e della strada, tanto tempo fa.

Mentre pedalavo mi sovvenivano nell’immaginazione le vicende, tutte diverse ed uguali, come fossero state quelle di mio padre e mia madre.

Le case cantoniere, chi è quel demente che abbandona ai rovi costruzioni e storie come queste?

Verso l’una ero quasi ad Arbatax: quasi, perché mi fermai davanti alla casa di Rosaria, una cara amica e compagna, sul grande viale che costeggia la ferrovia.

Qualche ora dopo ero a Ulassai per il convegno, all’ora convenuta e con una lunga doccia addosso.

Mentre gli argomenti seminariali si levavano io pensavo a Genna Silana per l’indomani: mille metri di quota da fare in poche ore, con cinquanta chilometri di salita e un ritorno di cinquanta chilometri di discesa: ne ero completamente inebriato.

Alle nove del mattino ero di nuovo a Tortolì alla stazione degli autobus.

Tirai fuori la bici dalla pancia del pullman e me la presi comoda fino a Lotzorai.

Poi iniziai la salita e dopo pochi tornanti scesi dalla bici.

Feci una foto alla muta cantoniera del km 148 e continuai a piedi: fare sui pedali un dislivello di cinquecento metri in cinque chilometri è contro i miei princìpi morali, ed è stato con questa certezza che sono arrivato pimpante a Baunei.

Poco tempo fa vi transitò il Giro d’Italia, a giudicare da una grande pittura murale alla periferia del paese: mi sentii uno del ramo, e dovetti fotografare la mia bici di primavera nella silhouette del disegno, contro la muraglia tutta tinta di rosa.

Da Baunei a Silana c’è un ulteriore salto di quota di cinquecento metri, ma è distribuito in ventisette chilometri: quindi la pendenza media è certamente tranquillizzante, ma si tratta pur sempre di ventisette chilometri su cui si rende necessaria una raccomandazione: uno dei problemi in genere trascurati da chi va in giro in modo sconsiderato consiste nel fatto che in Sardegna sono ormai molto rare le sorgenti e le fonti lungo strada, e in lunghe salite nel sole del mezzogiorno questa trascuratezza è imperdonabile, se non vi sono almeno chioschi o case per strada.

Fortunatamente verso Silana vi è una casa forestale e poi una fonte ben visibile poco prima degli incroci di Teletotes e Urzulei.

Sono quelle situazioni in cui, se ti sei avventurato senza precauzione e alla bisogna trovi queste condizioni di salvezza, ti viene anche voglia di credere in Dio: ma Dio si aspetta che tu impari a provvedere da solo, prima di metterti nei guai.

Vi è un’altra ragione più sublime per credere in Dio, lassù nell’altopiano: è la fascinazione del paesaggio, la mitezza delle mandrie e dei cavalli, e il profumo della ginestra in fiore.

Ma essendo questa una materia da lasciare ai poeti, e troppo lieve per chi ha da fare coi pedali, eccoci direttamente sul valico più leggendario dell’Isola, dominato da una cantoniera rigorosamente ristrutturata ma sprangata anch’essa in ogni sua porta.

Tuttavia il volgere delle cose, che sa offrire sempre un rimedio o una consolazione o una gioia, ha provveduto a far invadere la strada da un disordinato e numerosissimo gregge di capre, di becchi e caprette proprio mentre sopraggiungevo sul culmine.

È bello quando una capra ti osserva con fare interrogativo, per qualche istante, e torna poi ai fatti suoi: ti fa venire l’ininvid.aE

ntrai felice al chiosco, presi una birra grande e un grande panino, e dopo un poco feci dietro front per il ritorno giù a valle, nel brivido della lunga discesa.

Ero verso i seicento chilometri ed avevo superato la mia cima e il mio giro di boa.

Erano solo le due, e due ore dopo ero a Santa Maria Navarrese a vedere la gente in spiaggia.

All’ora convenuta ero di nuovo ad Ulassai per la riunione sindacale del pomeriggio, pronto a fare anche un po’ di baccano la notte con i miei compagni.

Tornai a Genna Silana in auto, puntuale per la brezza della mattina.

Quando mi misi in sella la strada era deserta e mi involai nelle giravolte della discesa verso Dorgali affidandomi allo stridore dei piccoli freni.

Ero preso contemporaneamente dalla fascinazione, dall’inebriamento e dalla visione del vuoto.

Mi scorreva davanti come al cinema il caos primordiale di Gorroppu, il vestito di ginestra della roccia bianca, l’intensità dei fiori gialli e del loro profumo, le sagome ammonitrici dei monoliti e il grande vuoto sotto le muraglie.

Superai il cippo del chilometro 200 dell’orientale e non mi fermai in paese, anche se di lì a poco mi sarei dovuto rassegnare di nuovo alla pianura.

Ero già sui marmi di Orosei e avevo un altro piccolo fiume e un’altra foce davanti.

L’ingresso all’abitato di Orosei è segnato per l’eternità dalle cave.

La polvere di marmo è dappertutto, ma è la dismisura degli sventramenti quella che desta un necessario spavento.

Sul lato opposto del paese si apre invece un’ampia valle prosperosa segnata dal fiume.

I nomi che i sardi danno ai luoghi non si concedono mai una minima tenerezza.

Ma iliCedrino, il fiume didOrosei, è una evidente eccezione: solo nel nome però, perché il Cedrino non è affatto un fiume tenero: esso raccoglie tutte le acque dei labirinti carsici del Supramonte interno, degli inghiottitoi, delle doline e degli immensi sifoni del sottoterra.

Così come raccoglie le storie delle latitanze, delle fratture esistenziali e degli stati di eccezione ricorrenti nelle vicende di Orgosolo, di Dorgali e di tutti quelli necessitati per qualche ragione al nascondimento e alla fuga.

Seguire il moto del Cedrino, dalle pendici di Fumai e di Monte Novo fino a Cologone e poi a Orosei, comporta una disposizione al compromesso e una sincera umiltà: la natura ha il diritto di celarti ciò che è intimo in lei.

Arrivai a Posada in tempo per riprendere un autobus che mi riportasse a Dorgali.

Dovevo però risalire a Silana a recuperare la macchina, e non me la sentivo a quel punto e a quell’ora di fare in bici venti chilometri di salita.

Bussai alla vetrina di una guida escursionistica e mi disse di potermi portare lui su al valico.

Mi disse il prezzo, mi chiese di dove fossi e quindi mi portò in cantina per la cortesia di un invito.

Si chiama Fancello, come molti a Dorgali, e così tra assaggi di vino ho trovato un amico.

Il Cedrino è un fiume carsico: la sua verità non è nella foce.

A Posada ero ormai sui settecento chilometri: mi rendevo conto che giorno dopo giorno stavo accelerando, e che la mia media saliva dagli ottanta chilometri di media delle prime giornate ai centoventi di media che ormai mi si svolgevano da soli sull’asfalto.

La mente di chi va in bici, come quella di ogni fatica, probabilmente è stratificata come l’organizzazione di una nave: chi è alla reception o ai servizi di sala o al ponte di comando non conosce propriamente la condizione di potenza dei motori e le risorse dello stato di necessità.

Perfezionai la dotazione del piccolo zaino, assicurandomi la disponibilità di cose come sapone, dentifricio e liquido per lenti a contatto: con quel ritmo potevo permettermi di non tornare a casa così frequentemente, e portare a termine la missione in un massimo di altri quattro giorni.

Anche da Posada seguii scrupolosamente le litoranee, ad eccezione del ramo di Porto Cervo.

Sùbito sotto la torre incrociai un altro enigmatico fiume, placido e terribile come sa essere il rio Posada che viene giù da Torpè.

Ma in quell’ora della prima mattina anche l’effervescenza dell’estate sembrava ancora dormire, almeno fino al lungo vecchio ponte e alla cantoniera.

È appena dopo che la scena cambia radicalmente, quando entri a Budoni.

L’abitato di Budoni si presentava molto animato già in quelle prime ore, soprattutto alle vetrine del panificio.

Il panificio principale di Budoni reca l’insegna ‘fratelli Mesina’ e ovviamente a me venne in mente la fibrillazione di quelle ore e quei giorni, per l’ennesima latitanza del fratello più celebre di incerto mestiere, ma mi parve un pensiero irriguardoso e gratuito, e continuai a pedalare.

Di qui a San Teodoro trovi una successione di artifici balneari che io ritengo assolutamente antipatici e brutti.

Tuttavia ho preso a cuore la borgata di Tanaunella, poiché esisteva da prima delle colate, perché ha un simpaticissimo nome, e soprattutto perché la toponomastica delle vie non si rivolge ai sepolcri dei personaggi illustri o delle icone nazionali, ma alle figure immaginarie della mitologia greca.

Entrare fra le prime case con davanti il cartello ‘Tanaunella’ e subito dopo ‘via Caronte’ e ‘via Ercole’ ti riconsegna un minimo di fiducia sulla creatività umana.

Alle quattro del pomeriggio ero a Santa Teresa, proprio Santa Teresa di Gallura.

Avevo superato nelle ore San Teodoro, Olbia, Cannigione, Capo d’Orso e Palau quasi senza pensare, come in uno stato di ipnosi.

‘Quasi’, senza pensare: a Palau incrociai la vecchia ferrovia che viene giù da tempio: nei giorni precedenti avevo dovuto trascurare quella sepolta di Sant’Antioco, avevo attraversato senza grande attenzione quella di Arbatax, ma non potevo permettermi di fare lo stesso con quella di Palau e con lo scenario della vecchia stazione.

Ho provato a immaginare il paese senza le costruzioni di data recente tutto intorno, e mi sono fermato con una nenia che mi frullava in testa in quei giorni.

All’origine si intitolava “I pascoli dell’abbondanza” e il suo autore era Woody Guthrie, ma entrò poi nelle nostre menti come la colonna sonora di “Per un pugno di dollari”; dedicai ad Ennio Morricone, volato nei pascoli del cielo in quei giorni, la mia visione della vecchia stazione di Palau, anch’essa da tempo in rovina.

Mentre facevo qualche fotografia contai i dollari del mio rapido pranzo, e tornai sulla bici.

Appena giunto a Santa Teresa mi rifugiai subito giù al porto, dove la prassi per me ormai rituale di saziarmi di birra tra le combriccole di perdigiorno trovò la sua perla: si trattava di un’ epica discussione sul carattere squisitamente maschile o squisitamente femminile del nome ‘Andrea’; fu la signora del bar a trovare un ragionevole compromesso tra le due tesi in contraddittorio, mentre stappava la mia bottiglia.

I bar frequentati dalle combriccole dei perdigiorno non sono semplicemente suggestivi in ragione di queste discussioni dotte, oziose e assolutamente inconcludenti, ma sono socialmente importanti soprattutto perché ti si garantisce già solo alla vista che il banco tiene in vendita bottiglie di birra da sessantasei centilitri.

Se non vedi questa specifica frequentazione umana puoi stare certo che il banco ti sciorinerà l’elenco di tutte le etichette, Becks, Stella Artois e altre corbellerie, ma solo in miserabili mezze bottiglie da trentatré.

In tali frangenti devi dire al banco con cortese decisione: ichnusa sessantasei.

Ti risponderanno con l’elenco canonico, con ‘mi dispiace’ con le risapute sciocchezze, e tu andrai felice da un’altra parte, tra i perdigiorno della gente seria.

Santa Teresa merita ben più che un passaggio in bicicletta, ma è bene che ognuno stia alla sua missione.

La mia consisteva di nuovo nel doppiare il capo angolare, laddove la geografia ti impone di piegare la direzione da nord ad ovest; il capo angolare oggetto di questa operazione consiste in realtà di tre capi: Punta dei Falconi, sul promontorio della Marmorata, poi Santa Teresa intesa come la rupe su cui si leva l’abitato, e infine Capo Testa che è a sua volta una specifica meraviglia.

Per di più c’è il Faro, e i fari a loro volta costituiscono un capitolo sterminato di geografie e di storie.
Proseguì per una ventina di chilometri nella brezza della sera, fino a Vignola.

Con un sacco a pelo appresso non potevo negarmi il desiderio di buttarmi in spiaggia nella notte e vedere il faro sardo di Capo Testa e il faro corsicano di Pertusato incrociare le loro intermittenze di luce baciandosi per tutta la notte.

A Vignola ci sono due villaggi con camping e servizi, circondati da ristoranti e bar; nella pineta adiacente c’è il market, con un altro complesso dotato di ristorante, rosticceria, asporto e bar.

Tutto era aperto ma praticamente vuoto.

Ovviamente la birra poteva essere solo in trentatré, ma questo in uno stabilimento balneare fa parte del gioco.

Quello che non dovrebbe far parte del gioco è la penosa condizione in cui si sono venuti a trovare gli operatori in questa difficile estate.

Con la birra ho chiesto alla ragazza del bar il favore di consentirmi l’allaccio a una presa elettrica per ricaricare il telefono: mi ha detto che ha avuto la disposizione di non acconsentire a questo genere di richieste, ma di sentirsi di trasgredire per quanto riguardava me; mi ha detto con gentilezza: “non è solo perché lei è in bicicletta, è anche perché lei è solo il secondo cliente in tutto il pomeriggio e la sera”.

Mi è venuto il desiderio di abbracciarla, e in un certo senso lo abbiamo fatto: il semplice incrocio dello sguardo, per un unico istante, è in grado di comunicare l’intimità della comprensione: non muove di nulla l’introito della giornata e men che meno il PIL di una nazione, ma la spiritualità, quale che sia, non soggiace a tali parametri.

Nessun pernottamento a tre o quattro o cinque stelle vale la visione dell’alba quando scema l’idillio dei fari, come tra Capo Testa e Pertusato.

Piegai il mio paio di cose, mi avvicinai al beccuccio di un irrigatore provvidenzialmente in funzione, e così ben bagnato tornai allo stradone mentre il sole appena si alzava.
Al chilometro venticinque della statale settentrionale, nei pressi di Trinità, fui colpito dalla forma di un monolito di granito bianco al bordo della strada: era la sagoma di una maternità.

Era bello, e per quanto fossi in marcia in salita mi fermai.

Fare una foto è solo una soddisfazione sostitutiva, mentre la mente cerca ciò che è suo: mi tornò in mente la ragazza del bar, l’incertezza delle giovinezze dei nostri figli e la maternità di granito.

Feci a piedi il resto della salita, fino a trovare un caffè e una illusione di normalità.

A Valledoria mollai per un poco lo stradone, in cerca della foce del Coghinas.

Anche questa si mimetizza in uno stagno, ma in qualche modo assolve al suo dovere scolastico di essere la vera foce di un vero fiume.

Ne fui contento e questo agevolò la constatazione della lunga salita davanti: non potevo permettermi di imbrogliare Castelsardo, e quindi imboccai diligentemente la strada vecchia.
L’ingresso a questo straordinario borgo mi si apriva fortunosamente nella mattina del mercato.

Il mercato di Castelsardo vincerebbe senza dubbio il primo premio in una specifica classifica di bellezza: esso è posizionato in linea sulla lunga terrazza del belvedere, con tutto il golfo spianato davanti, da Bonifacio fino all’Asinara, tra pile di formaggi, giocattoli, giapponesine e aggeggi da mare.

E la curiosità di chi non è del luogo, e i pensieri di chi è dietro il banco, in attesa di qualcuno; per molta gente è sempre lunis santi, anche se non lo dice e non ci sono riti di preghiera.

Al castello ti prendono la temperatura e poi ti indicano i punti di interesse.

Io gironzolavo con la bici tra le scalette dei vicoli, fino alla piccola chiesa delle Grazie, in cima alla rupe, con dentro i legni del calvario.

Il rispetto del calvario, che si protende dalle piazzeforti genovesi delle due isole, e particolarmente da Castelsardo a Sartene, è intriso nelle pietre e nei muri.

Devo tornare quassù, per l’alba di un lunedi santo, e per un giorno di mercato in inverno.

Il segmento costiero per Porto Torres è probabilmente gradevole per i locali, per l’estensione delle pinete e per l’apparente razionalità degli accessi alle lunghe spiagge.

Ma non posso negare che si è trattato del tratto di strada per me più noioso.

A un certo punto sfiorai con la ruota un telefono cellulare perduto da qualcuno e nell’incertezza mi fermai a raccoglierlo.

Era funzionante e quindi decisi di prenderlo per consegnarlo ai vigili.

Poi digitai e mi comparve sullo schermo l’immagine di un ragazzo di pelle nera.

Allora stabilii di non consegnarlo agli agenti, far girare su facebook la ricerca del proprietario e aspettare.

Feci bene, anche se il proprietario non era un immigrato senza permesso di soggiorno ma si rivelò essere semplicemente un ragazzetto di Porto Torres.

E lì, a Porto Torres, arrivai appunto verso mezzogiorno.

Presi una birra, presi un autobus, e qualche ora dopo ero di nuovo a Posada a recuperare la macchina.

Ormai mi mancavano meno di trecento chilometri alla foce del Tirso, e la macchina non mi sarebbe servita più.

La mattina dopo ero di nuovo a Porto Torres, dopo due ore di autobus da casa.

Erano le dieci in punto e mi aspettava sotto la pensilina del porto la mammina del giovane di cui il giorno prima avevo trovato il cellulare per strada.

La felice conclusione di un simile contrattempo dovrebbe segnarsi con una gioviale cortesia, ma nei paesi anche con “gradisce una birra, o un caffè?”.

Ma forse non tutto il mondo è paese.

Come che sia, il cellulare è tornato al distratto proprietario, e io mi sono arrangiato da me al bar del porto prima di tuffarmi nella strada.

Per arrivare al capo di nord-ovest, cioè quel promontorio di Capo Falcone da cui Stintino e la Torre della Pelosa guardano da vicino l’Asinara, partendo da Porto Torres devi lambire un’altra successione infernale: Enichem, Enel, Fiumesanto e fabbriche consunte.

Poi raggiungi l’amena borgata di San Nicola e procedi sulla lunga bretella fino al Capo: venti chilometri ad andare e altrettanti a tornare, fra la gentilezza degli stintinesi, la cortesia dei crucchi e la sguaiatezza provocatoria di ospiti italici e sardi possibilmente in suv.

Ma è l’antropologia delle spiagge, talvolta non la puoi evitare; e in realtà anche io concessi poca cortesia a una giovane coppia in auto che mi chiedeva informazioni sul senso unico per la spiaggia: ma ero sui pedali, e ne sapevo meno di loro.

All’una ero di nuovo a San Nicola, a fare una birra nel bar della piazzetta.

Alle due ero a Palmadula, e di qui incrociai una traversa tabellata come strada di Puddighinu: essa taglia di netto un belvedere nel paesaggio, e ne aprì di colpo un altro nella mia mente.

Avevo davanti la visione di Capo Caccia e della costa di Alghero fino a Marrargiu.

Ormai ero sull’orizzonte di casa.

Ma quella tabella sul belvedere della collina, ‘strada comunale Puddighinu’, mosse nella mia memoria una figura da tempo scomparsa. ‘Puddighinu’ era il soprannome di un ‘trubadore’ di bestiame, un uomo che io conobbi da bambino quando lui era ormai quasi vecchio. Trasportava bestiame a piedi su commissione, per tutta l’Isola, generalmente dai luoghi di fiera. Probabilmente era il massimo conoscitore di sentieri, dai tempi in cui di fatto non esistevano se non pochissime strade. Ed era uno dei pochissimi sardi del centro a frequentare i deserti periferici dell’Isola e la Nurra allora disabitata, dall’Alguer fino alla costa mineraria dell’Argentiera. Chissà l’origine di quella denominazione, Puddighinu, sulla tabella stradale di Palmadula.

Un’ora dopo ero al bar istriano di Fertilia: agli antipodi di Castiadas dei piedi neri, Fertilia è stata una terra promessa per piedi bianchi. Lo stagno di Calic e il vecchio ponte di pietra ne conservano un’aura antica, che sembra aver resistito finora a pesanti trasformazioni.

Alle quattro aggiravo le mura di Alghero dalla parte del mare.

Se mi fossi buttato su Bosa, quarantacinque chilometri di asfalto a grana grossa per me impraticabili in caso di salita o di vento contrario, non sarei potuto arrivare prima di quattro o cinque ore ancora. Ero in strada da sei ore e avevo già alle spalle almeno ottanta chilometri di ore del mezzogiorno e svariate soste di birra. Mentre fotografavo una catapulta di Carlo Quinto sugli spalti della città vecchia guardai la bici per chiedere consiglio, e Marrargiu davanti per ponderarne la sfida: ricordai Giulio Cesare ai tempi del Rubicone, e uscimmo da Alghero.

Per grazia di Dio all’altezza di Pòglina non c’è solo la torbida vicenda della Gladio, che aveva avuto nell’area militare di quel lembo di mare il suo covo, ma anche un’amena piccola spiaggia con un piccolo ristorante.

Da lì in poi però iniziava davvero la prova: non mi restava altro da fare scendere dai pedali e tirare avanti di buon passo in salita animato dalla prospettiva della discesa, comunque lontana.

Al limite di provincia scoprii che la tabellazione chilometrica del tratto di competenza di Sassari era sbagliato di due chilometri, e che quindi avrei avuto due chilometri in meno di salita rimanente da fare.

Ringraziai i Santi di quel deserto, perché tale è la costa di Marrargiu tra Pòglina e Bosa, e di lì a poco volai giù per la lunga discesa, mentre il mare cominciava a riflettere la luce del tramonto.

Ora a Bosa si trattava di trovare da dormire. Mentre gironzolavo in centro con la bici per mano, diretto alla ‘Casa del Popolo’ dove sono di casa, mi arrivò sul cellulare un messaggio col numero di telefono di Francesca, anche lei un’amica di Orotelli che però abita proprio a Bosa. Così potevo considerare risolto il problema della notte, e decisi perciò di dedicare l’ultima mezz’ora di luce a una birra grande in onore ai Santi del deserto: Marrargiu, appunto.
Mentre andavo al Bar Campus, sul selciato del vecchio corso, mi vennero segni di saluto da una giovane coppia per me sconosciuta che stava cenando a un tavolino. Mi chiesero se di mattina ero a Stintino e ovviamente risposi di sì. Erano quelli che mi avevano chiesto informazioni sulla spiaggia della Pelosa. Non ci perdemmo in frasette di circostanza: eravamo soltanto felici di esserci ritrovati, anche se non ci conoscevamo nemmeno. Il giovane disse di aver riconosciuto la bici, prima che me, e ne fui quasi meravigliato. Disse che ha un negozio di biciclette, a Cagliari all’incrocio di Genneruxi, e che la mia è una vera bicicletta. “Infatti – aggiunse la compagna – lei è arrivato qui da Stintino più in forma di noi”. Avevo trovato due nuovi amici, omaggio evidente dei Santi di Marrargiu: ci ripromettemmo di vederci a Genneruxi per una birra insieme, quando la buriana dell’estate e più ancora del Covid sarà finita. Poi andai al Bar Campus e di qui da Francesca, a pescare racconti di questo viaggio strampalato e a dormire: ero a millecento chilometri, e me ne aspettavano ormai meno di cento fino alla foce del Tirso in cui si sarebbe richiuso il mio cerchio.

La mattina dopo uscii presto per assolvere a un imperativo rituale cui sono tenuto tutte le volte che càpito a Bosa di prima mattina: andare a Bosa Marina a prendere una tazza grande di caffè, e guardare il fiume. Quando ero proprio piccolo, prima che andassi a scuola, una volta soggiornai a Bosa Marina per una decina di giorni con una indimenticabile zia di nome zia Fortunata. Già allora la magia di quel fiume mi affascinava, perché in verità ad eccezione del Temo non esistono in Sardegna veri e propri fiumi, almeno per come i fiumi sono pensati dai bambini. Era la mia ultima tappa, pensai, quindi potevo ben permettermi un’ora di scrittura dedicata a quel fiume, seduto all’ombra fuori dal bar.

Quando penso alla vecchia zia di quel tempo mi tornano in mente due visioni, come nei film: la prima riguarda il temo. Allora non c’era il ciclopico sbarramento a mare, necessitato per impedire che il maestrale levi le onde come muraglie contro il fiume stesso, sulla foce, col rischio ricorrente di allagamento della città. Allora c’era la foce e basta, con un turbinare di correnti e gorghi per me spaventoso. E un giorno di quella mia infanzia, con la zia che mi teneva per mano sul molo, vidi con terrore un gruppetto di ragazzi discendere la corrente giù dal paese, infilati uno a uno nel cerchio di camere d’aria per ruote di camion. Scendevano sempre più forte fino a quando, nei turbinii della foce, non venivano inghiottiti e risputati dall’incontro delle acque, innumerevoli volte prima che fosse loro possibile raggiungere il mare aperto e dirigersi a terra più in là, coi loro enormi salvagente neri. Tutte le volte che incrocio il nome di Edgar Allan Poe mi sovviene l’immagine della discesa nel Maelstrom, e la nitida visione di quel giorno.

La seconda visione che associo alla vecchia zia è quella della stazione ferroviaria della borgata, uno dei terminal più importanti e suggestivi della strabiliante storia dello scartamento ridotto nelle ferrovie sarde. Ora ci sono solo i vecchi edifici abbandonati all’incuria, la ruggine degli scambi, un antico vagone merci tutto di legno, e grandi e piccoli accessori sparsi qua e là per la ghiaia. Essendomi casualmente imbattuto in un grande chiodo di fissaggio, l’ho soppesato un poco tra le mani e poi l’ho preso con me; è il chiodo di una promessa: Serbarìu, Arbatax, Palau, Bosa… trovare un modo per rendere omaggio alle antiche ferrovie che ho incrociato in questi giorni per strada.

Se per risalire da Bosa sull’altopiano passi da Sa Lumenera devi mettere in conto la ripidità della salita: infatti io a Magomadas sono arrivato a piedi. Ma da lì in poi vai tranquillo come un bambino, salvo le tappe a Sennariolo, Santa Caterina, Putzu Idu, San Salvatore e Turremanna per garantirti un arrivo felice al tuo ultimo chilometro. Devi solo fare lunghissimi rettilinei sotto il sole implacabile, non farti tentare dall’ombra dei lecci, non temere la luce abbacinante delle sterminate distese di sale, e prima o poi arrivi. Così mi sono trattenuto anche a leggere il giornale al bar di Sennariolo, a prendere gelato al bar dello spiaggione a Putzu Idu, e mangiare frittura di mare a San Salvatore…. Per l’ultimo chilometro avevo tempo fino all’Ave Maria.

Invece ci arrivai verso le cinque.

Mi fece un poco penare poiché dal pontile, ovvero dall’antica sede marinara della dogana di Torre Grande, oggi ancora utilizzata per altre funzioni e adeguatamente curata, le piste corrono tutte sulla sabbia.

Quindi alla foce si arriva praticamente a piedi: ma questo mi ha consentito di portare la mia magnifica bicicletta di primavera tutta per mano, così come si porta una fidanzata all’altare.

C’era solo un pescatore in prossimità della foce, con due canne issate sul rivolo che fluiva nel mare. L’acqua alla foce era profonda solo fino alla cintola e il caldo mi tentava davvero.

Ma questa volta non giocai ad attraversare: non sta bene burlarsi delle cose del Creato.

Avevo chiuso il mio cerchio, e questo era tutto sia per me che per quello che mi è stato concesso di vivere e di vedere dalla strada in tutti quei giorni.

E per loro due, le mie vecchie compagne con le ruote.

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Come si può vedere, l’andare in giro semina nella mente e nell’animo innumerevoli attenzioni, ricordi, evocazioni, visioni e desideri, e li miscela e li incrocia senza fine.

Ma a me interessa ora fissare in due sole postille due segnalazioni che mi stanno a cuore: la prima postilla riguarda ‘i conti in sospeso’ e cioè gli elementi di storia o di paesaggio con cui siamo tutti in debito di attenzione, e a cui cercherò di dedicarmi per le prossime volte: ferrovie, cantoniere, e fiumi.

E colonie penali, riforme agrarie, e fari….

La seconda postilla riguarda invece un più razionale scaglionamento della tappe in un virtuale giro perimetrale della Sardegna simile al mio:

 

POSTILLA 1:

1: ferrovie a scartamento ridotto in Sardegna: mappatura, storia, stazioni, caselli, ponti, gallerie, tornanti, e soprattutto percorribilità a piedi;

2: case cantoniere: statali, provinciali, utilizzate, ristrutturate, abbandonate, inagibili ecc.: storia, descrizione, fruibilità, recuperabilità;

3: fiumi della sardegna: geografie e storie

POSTILLA 2: giro litoraneo della Sardegna in 1.000-1.200 chilometri:

1: foce Tirso – Buggerru (via Piscinas): km 100;
2: Buggerru – Sant’Anna Arresi (via Portoscuso): km 100;
3: Sant’Anna Arresi – Cagliari (via Chia): km 110;
4: Cagliari – Muravera (via Capo Carbonara): km 120;
5: Muravera – Arbatax (via Cardedu): km 80;
6: Arbatax – Orosei (via Genna Sìlana): km 100;
7: Orosei –  Olbia (via Posada): km 100;
8: Olbia – Vignola (via Santa Teresa): km 90;
9: Vignola – Capo Falcone (via Castelsardo): km 110;
10: Capo Falcone – Bosa (via Palmadula): km 120;
11: Bosa –  Foce Tirso (via putzu idu): km 110;

TOTALE KM : 1.140 (il chilometraggio totale può ridursi di alcune decine di chilometri se si tagliano le bretelle per i capi (carbonara e stintino) e percorrenze litoranee troppo marginali (sinis, capo ferrato ecc.).

 

 

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Grazie Gian Luigi per questo diario di viaggio di grande poesia.
E grazie per la cultura, il coraggio, le storie di vita e l’amore per la nostra terra.

Nicola Giua
COBAS Sardegna

 

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