Giulietto Chiesa, la scuola, i centri commerciali – di Daniela Pia

Qualche sera fa ho sentito Giulietto Chiesa raccontare della deriva presa dalla nostra società, dove un sistema finito di risorse dovrà urgentemente fare i conti con uno sviluppo infinito e impossibile. Scenari spaventosi, a sentirli esposti con dati precisi, nero su bianco, ma che già quotidianamente possiamo osservare nel nostro più o meno ampio cortile. Sarà necessario radunare le forze, suggeriva Chiesa, perché si dia voce a una nuova umanità capace di recuperare l’armonia e l’equilibrio con il pianeta che la ospita. Programmare una decrescita, che non sarà indolore. Altrimenti l’ anno zero, che ha già bussato alle porte del nostro sfrenato consumismo, irromperà nelle nostre esistenze trascinandole con la sua piena. Ha concluso il suo intervento Giulietto Chiesa auspicando una nuova Resistenza consapevole, anche contro un certo tipo di informazione, costruita ad arte, perché nessuno capisca veramente cosa sta accadendo. Gli chiedo: «Lei pensa davvero che sia possibile strutturare una qualche forma di Resistenza a tutto ciò? La mia sensazione è che non ci siano più armi dialettiche a disposizione, capaci di consentire alle persone di far fronte ad una così urgente consapevolezza. Ci hanno cucinato, ci siamo lasciati cucire addosso una cittadinanza passiva, deprivata, cui manca il lavoro, quindi la dignità; cui sono state sottratte lentamente le risorse e la speranza. Una sorta di sudditanza molle . Abbiamo perduto le competenze critiche che ci consentivano di leggere e affrontare il pericolo. Cosa ci resta da fare dunque?».

Il giornalista ha risposto richiamando l’importanza del ruolo della famiglia e, in modo particolare, quello della scuola sottolineando quanto sia illusorio, come sta accadendo, riporre grandi attese nella continua costruzione dell’homo videns che ingrassa già di suo. Compito arduo dell’istruzione, ha ribadito, sarebbe insegnare a leggere le immagini per poter svelare gli inganni, restituire ai cittadini consapevolezza e strumenti di interpretazione della realtà, recuperare l’ uso della parola, quella originale, personale frutto di riflessione autentica.

Peccato – mi dicevo – che la scuola stia andando in direzione contraria. L’ uniformarsi dei programmi è in atto da tempo. Anche se pochi fra gli addetti ai lavori ne sono consapevoli. L’Istituto dell’ Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) sta costruendo compilatori acritici di crocette. I programmi sono stati compressi, adattati e piallati per competere con quiz in cui i ragazzi e le ragazze scompaiono. La scuola-azienda si muove su piedi d’argilla e risponde obbediente a logiche di mercato. Prona e senziente. Sul registro di classe proprio oggi leggevo, incredula: sabato gli studenti saranno impiegati nei seguenti centri commerciali per attività legate all’orientamento. Orientamento? Chiedo agli studenti e alle studentesse. «Sì professoressa, fermiamo la gente annoiata che ha fretta perché deve fare compere e la invogliamo a iscrivere i figli alla nostra scuola. addolcendo la realtà. Anche noi abbiamo creduto a questa realtà quando ci hanno fatto credere, tre anni fa, che avremo avuto i laboratori che ancora mancano in questa scuola alberghiera, ma “per l’ orientamento” dobbiamo farlo». Dobbiamo farlo? Questo dunque pensano?

Forse è ora che come educatori, riprendiamo a farci e a porre domande, e dobbiamo farlo alla svelta. Come possiamo pensare di insegnare a leggere la realtà, far crescere la consapevolezza, fornire le generazioni future di strumenti di interpretazione della stessa se negli stessi luoghi deputati alla formazione, quasi “non scuole”, stiamo creando una realtà virtuale, fatta di spot, commercialmente appetibile ma finta, giungendo a spenderla persino nei “non luoghi” pieni di vuoto? Facciamocele le domande colleghe e colleghi, insegniamo a porle e a pretendere le risposte. Sarebbe un inizio di Resistenza alla deriva.

Daniela Pia

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