NULLA PIENO DI NOMI – Islanda: il banditismo come istituzione madre di Gian Luigi Deiana

UN NULLA PIENO DI NOMI
Islanda: il banditismo come istituzione madre

Per quanto la storia islandese sia recente, essendo iniziata solo undici secoli fa, essa non è facile da capire per uno che viene da fuori, anzi non viene quasi considerata, essendo priva di eventi eclatanti e memorie monumentali; ma soprattutto è surclassata dalla geografia dei paesaggi: questa si presenta non sotto la parvenza della bellezza, che si apprezza e si racconta, ma sotto la condizione della sublimità, che ipnotizza e non si cattura (la distinzione tra bello e sublime è qui ripresa dal filosofo Kant), in una sequenza che colpisce continuamente a sorpresa, che affascina fino all’angoscia e che non ha fine.

Lo scenario smisurato di questa apparente geografia senza storia è il vuoto, e tuttavia questo immenso vuoto è pieno di nomi; ma i nomi sono cicatrici umane e dunque la terra di nessuno è stata una volta, almeno per un giorno, la terra di qualcuno: quel qualcuno è il bandito.

La storia umana di questa terra estrema nasce da due migrazioni, la prima di un clan vichingo cacciato come fuorilegge dalla norvegia e la seconda di eremiti irlandesi seguiti da monaci benedettini; con la prima banda vennero pecore e capre, con la seconda galline e maiali; vennero anche monache e icone religiose, e qui comincia il bello.

La banda di Eric il rosso venerava gli Dei del Walhalla, mentre i monaci passavano dagli eremi ai chiostri; gli atti di conversione hanno dato luogo a narrazioni epiche, con riti di distruzione di icone gettate nelle cascate e imputazioni di stregoneria e sesso diabolico su malcapitate novizie; nella realtà delle cose e dei nomi non si trova tuttavia una dominanza delle chiese o una toponomastica riferita ai santi; sembra quindi che il rapporto tra le due componenti si sia risolto con una ufficialità cristiana che veste una psicologia pagana.

La psicologia pagana è un universale, nel senso che è quella deputata a intraprendere la trasformazione di una terra di nessuno in un pagus, un luogo con un nome ed un muro, compatibile tuttavia col nomadismo del bestiame, necessitato dal furore degli inverni; il chiostro monastico instaura invece una stabilità rafforzata dall’istituzione dei cimiteri; è curioso, si imparerebbero un mucchio di cose dalla storia dei costumi funerari.

Il compromesso sopravviene per necessità allorquando il pagus o il chiostro danno luogo al villaggio e quindi a una legge e un giudice per il villaggio.

Ci troviamo qui di fronte a un sorprendente paradosso: una dispersione di clan marinari furilegge e di confraternite monastiche migranti inventa la legge e la inventa talmente bene da istituire come organismo supremo “il parlamento”: ciò avviene mille anni fa, con secoli di anticipo sul parlamentarismo continentale europeo.

La legge stabilisce il limite condiviso e prefigura quindi la condizione giuridica del fuorilegge; la soluzione clanica affermatasi in Islanda consisteva in questo: se un soggetto veniva considerato colpevole da un giudice la parte offesa acquisiva il diritto alla vendetta privata, e tuttavia l’imputato acquisiva a sua volta il diritto alla latitanza nelle terre di nessuno e cioè nei deserti interni.

Una tale necessità del dover decidere soggettivamente la misura del torto e della pena ha plasmato nel tempo un particolarissimo rapporto tra la giustizia giuridica ufficiale e il senso morale soggettivo, un rapporto di desiderabile consustanzialità: assumere cioè come valore sociale primario non la garanzia giudiziaria della pena erogata da un tribunale , ma la prevenzione morale del torto comandata dalla dirittura personale: il convincimento condiviso e pressochè scontato che la regola non sarà infranta, e che tale solidarietà nella condotta è essenziale per evitare che la vita di tutti e di ciascuno diventi ancora più difficile; si tratta anche di una prassi educativa del tutto evidente nella modalità di un comportamento sociale spartano e del tutto privo di smancerie; in questo senso l’efferatezza di cui sono intrise le saghe e i racconti è da intendere come una sublimazione narrativa della sfera oscura della condotta, da neutralizzare per principio in quanto mortale.

Torniamo quindi alla geografia: se amputiamo l’Islanda dai luoghi assolutamente inabitabili o allora inabitati, cioè il grande ghiacciaio a sud est e la grande penisola a nord ovest, ne rimane una specie di frittella di forma ellittica che possiamo immaginare quasi circolare; questo cerchio ha poco meno di quattrocento chilometri di diametro, ma solo una striscia perimetrale di circa venti chilometri è approssimativamente abitabile: questo significa che la terra di nessuno è un grande cerchio freddo e desertico, senza erba e senza vita, il cui diametro misura trecentocinquanta chilometri; cioè, se ti trovi al centro e sopravvivi in stretta prossimità di una sorgente termale nutrendoti di angelica e carne secca, per razziare qualche pecora dalle terre abitate hai sempre davanti almeno centocinquanta chilometri di pietra e sabbia, o di neve e ghiaccio.

Dunque, chi ha dato i nomi a quei luoghi?

Chi li ha popolati di elfi, troll, streghe e fantasmi, così ancora onnipresenti nelle ballate e nelle nenie per i bambini?

Chi ha tracciato i segni delle uniche piste percorribili per gli incontri clanici, le combinazioni matrimoniali, i processi per le imputazioni di furto o omicidio e l’annuale convocazione del parlamento?

Chi ha segnato per primo le cicatrici umane del grande vuoto?

La risposta è una sola, documentata da racconti, saghe e leggende spaventose: loro, i banditi.

La domanda su come possano essere riusciti in questo compito da pionieri in territorio così assurdo, ed esservi riusciti con precisione quasi scientifica, può trovare risposta nella espansione orografica degli altopiani; i monti non sono tanto alti da essere dominanti sugli altopiani e quindi la portata visiva può contare nelle giornate di sereno su campi di visuale estremamente lunghi; le sagome montuose sono estremamente profilate e si stagliano sull’orizzonte consentendone la riconoscibilità una per una anche da immense distanze.

Salvo che poi c’è la nebbia, le nuvole di sabbia, il vento incessante e crudele, il freddo senza rimedio.

La canzone tradizionale più cara a tutte le famiglie è una ballata per bambini: racconta di una mamma che getta il figlioletto in una cascata, per risparmiargli la morte per fame; ninna nanna, bambino mio.

Gian Luigi Deiana

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