Gianluigi Deiana

UNA TRAVERSATA IN BICICLETTA Civitanova – Civitavecchia: due mari, due appennini e trecento chilometri – di Gian Luigi Deiana

UNA TRAVERSATA IN BICICLETTA
Civitanova – Civitavecchia: 
due mari, due appennini e trecento chilometri
di Gian Luigi Deiana
 
Le penisole costituiscono sempre una tentazione all’attraversamento da mare a mare, e la presenza intermedia di montagne ne accentua la forza.
Quella che chiamiamo Italia è il frutto millenario di questa tentazione: venti che trasferiscono pollini e semi, migrazioni incessanti di faune, transumanze di mandrie e di greggi, e commerci e conflitti di genti umane.
 
La corsa ciclistica Tirreno-Adriatico è da decenni più una questione di costume che una gara sportiva, e una cosa bellissima da immaginare per un piccolo vagabondo in sella può essere l’indimenticabile Adriano De Zan che commenta in diretta l’attraversamento con gli elefanti guidato da Annibale il cartaginese.
Quando sei da solo per ore con la sola compagnia della tua ombra su due ruote sei padrone di immaginare qualunque cosa.
 
I tragitti stradali possibili in tutta l’Italia centrale sono numerosi, e svariano dai centottanta chilometri che separano Vasto da Formia ai circa trecentoventi che separano Ancona da Orbetello.
A me andava bene prendere come traguardo di arrivo il porto tirrenico di Civitavecchia, per una specie di legame infantile. E dunque, anche solo per associazione toponomastica, assumere come punto di partenza il porto adriatico di Civitanova, nelle marche, mi si imponeva praticamente da sè.
 
Dunque Civitanova – Civitavecchia, esattamente duecentonovantasette chilometri in una parentesi di bel tempo dopo la grande tempesta piovuta tra l’Emilia e le Marche.
E quindi tre giorni di giostra, in compagnia della propria ombra, in direzione sud-ovest, fissando il traguardo dei primi cento chilometri a Visso, sul confine tra Marche e Umbria.
I secondi cento chilometri a monte di Orte, sul confine tra Umbria e Lazio e i terzi cento chilometri a Civitavecchia, giù al porto vecchio.
 
Ma un conto è dirlo, con una carta stradale davanti e un evidenziatore in mano, e un conto è farlo, dovendosi concentrare su minuterie fondamentali: bagaglio essenziale, minimizzazione del peso, minima dotazione di emergenza… maglietta, maglione, sacco a pelo, lenti a contatto, legacci, fari da bici a pila, mappe, e affidamento all’angelo del signore.
 
La geografia ti pone davanti in successione due magnifiche barriere appenniniche, separate l’una dall’altra dal tratto mediano del Tevere: prima i monti Sibillini, che puoi guadagnare risalendo la valle del fiume Chienti.
Una volta su, puoi svalicare verso Foligno o verso Terni, ma se ti intrigano le gole spettacolari del fiume Nera ovviamente tiri verso Terni, laddove incrocerai le Marmore e la città, e così dopo una complicata successione di laghetti artificiali ti troverai sul Tevere.
Di qui dovrai salire di nuovo, su per i piani dei monti Cimini e poi verso Viterbo. 
Lì sarai già verso casa, e in qualche modo, benchè da lontano, comincerai a vedere di nuovo il mare.
 
Per quanto sia prodiga di visioni, la bicicletta non concede i tempi di trattenimento che si percepiscono come necessari. Non consente tregua perchè marcia sempre sull’imprevisto.
Così ti si sfoglia di continuo una incessante successione di luoghi che danno attimo dopo attimo una gioia e un rimpianto, perchè li ammiri mentre insieme ne fuggi via.
E così, come succede ai bambini, è facile che ti si fissino in mente frivolezze di poco conto piuttosto che vestigia riconosciute.
 
A Civitanova ho voluto fare una foto alla bici piazzandola sulla fiancata di un glorioso peschereccio in disarmo, e da quella benefica aura di salsedine sono poi propriamente partito, con la benedizione immaginaria delle generazioni di pescatori che hanno abitato nel tempo quella barca.
 
Appena esci dalla cittadina trovi l’indicazione di un santuario dedicato a santa Maria apparente: proprio così, “apparente”; questa è una attribuzione bellissima, perchè ognuno ci può trovare il significato che vuole.
Che nostra Signora quando le va appare, oppure che appare ma solo apparentemente, ecc..
Lei stessa si metterebbe un pò a ridere, però io non mi potevo fermare a vedere, e questo è stato quel giorno il mio primo rimpianto.
 
Il Chienti discende verso l’Adriatico senza grande fracasso: viene giù impregnato di argilla grigia lungo estese piane e colline sinuose.
Le coltivazioni sono ordinate e silenziose, anche perchè non si vede traccia di allevamenti, di pasture o di stalle, salvo per vecchi ruderi abbandonati.
In compenso la vecchia statale è diventata un’autostrada molto trafficata e rumorosa, fiancheggiata per chilometri da capannoni e stabilimenti industriali: niente più ermi colli e natii borghi selvaggi, benchè Recanati sia proprio là dietro.
Il peggio è che mentre persistono sul terreno moltissimi stabilimenti ormai abbandonati, rispetto a questi i nuovi stabilimenti non sono pensati in modalità sostitutiva, a riguardo del consumo di suolo, ma semplicemente ne divorano ancora di più, e così le strutture di servizio, le vie interne agli agglomerati, gli svincoli ecc.: è un harakiri incessante, incapace di pensare rimedio.
 
Quando superi Tolentino trovi una successione di piccoli borghi, laddove ciascuno di quelli di lato alla strada replica il proprio borgo madre adagiato sulla pendice della collina, in uno scenario di antica e invincibile bellezza.
Quello più invitante si chiama Càccamo, allietato da un lago artificiale nitido e invitante.
La lapide che domina il belvedere informa che l’area fu abitata da genti sicule, proprio sicule, fin dal quinto secolo prima di Cristo, e che furono queste a porre al luogo quel nome, Càccamo.
Vicende come questa possono forse spiegare come fu possibile a uno come Annibale, qualche secolo dopo, disporre di informazioni attendibili, e di una mappatura dei territori, e delle strade, addirittura a prova di elefante.
 
Il paesino di Muccia si trova su un altopiano.
Qui la strada si sdoppia all’altezza di una stazione di carburante: sei ancora nelle Marche, ma ad ovest vai a Colfiorito e Foligno, mentre a sud-ovest vai a Visso e Terni.
Facile a dirsi: io avevo addosso già ottanta chilometri di salita, leggera ma continua, e mi sarei  volentieri fermato per la notte nel motel lì a fianco: solo che era chiuso, con scritto “inagibile”, e questo è stato il mio primo incontro con la realtà dell’ultimo terremoto.
Ho preso una birra al bar, una piccola sarda ichnusa, e mi sono diretto a Visso: una ventina di chilometri ancora, con una ripida salita fino alla pieve di Macereto e una ripidissima discesa fino al paese.
 
Fino al paese? Nossignore, il paese non c’è più.
Restano curiosamente in piedi alcune costruzioni medioevali, mentre molti edifici di costruzione recente appaiono letteralmente crepati.
E’ il destino del cemento armato.
Cercando un luogo per dormire mi sono sentito un poco in colpa: non è bello fare turismo sul terremoto, e in realtà non ne avevo alcuna intenzione.
Non credevo che anche Visso fosse ridotta così, come Arquata o l’area del Tronto.
Ma ormai c’ero; un signore mi indicò un B&B al lato della baraccopoli, così potei mollare la bici e sistemarmi per la notte.
 
La baraccopoli era tenuta non solo con scrupolo, ma con una grazia particolare: una specie di spirito civico collettivo, o una specie di preghiera.
Andai a cena in paese, la vecchia Visso ormai sgomberata o sventrata.
Il chiosco dei giardinetti era animato da una diecina di giovani seduti serenamente a discutere delle loro cose.
E’ stata per me una immagine consolante, gioiosa a riguardo dei ragazzi e velata a riguardo dei loro genitori.
E’ bello che quelli che nei giorni della catastrofe erano ragazzini possano vivere oggi senza tutto il peso di quel trauma, ma credo che per la generazione dei loro adulti il trauma permanga, impossibile da cancellare.
 
La mattina dopo mi involai nel lungo canyon, con due maglioni addosso.
A Triponzo la gola del Nera si apre, e la successione di eremi e pievi segna la diversificazione delle vie: Fiastra, Cascia, Norcia, ecc..
Il sole riprese a illuminare il paesaggio, ora denso di olivi e colture.
All’incrocio per la strada di Spoleto fa mostra di sè una vecchia trebbia di legno di almeno ottanta anni fa: reca il marchio “Saima – Piacenza”.
E’ gemella di quella che avevamo in paese, negli anni cinquanta.
Poi crollò il prezzo del grano, e anche la nostra piccola trebbia di paese finì abbandonata in un angolo di strada.
Quali sono gli anni della gloria?
 
Le Marmore buttano giù il Velino sul Nera, e infatti si tratta di una vera cascata.
Se vi è stata pioggia fa un vero effetto.
Poi entri a Terni dal quartiere industriale delle acciaierie.
Una curiosità toponomastica della provincia è che i luoghi sono indicati col prefisso “vocabolo”.
Se per esempio abiti a Verdeprato il cartello indicherà “vocabolo Verdeprato”, ecc.: non capisco perchè.
 
Per entrare nel Lazio devi superare il Tevere.
Ma a questo punto devi decidere se passare per Amelia oppure per Narni.
Amelia comporta più salita, ma Narni è molto peggio: senza che tu lo sappia, se non sei in superstrada in automobile tu stai per entrare in un vero labirinto.
Infatti, laddove le vecchie statali sono diventate superstrade o autostrade, tutta la segnaletica è formulata per tale esclusiva funzione ed ignora chi invece va in trattore, a piedi o in bicicletta o comunque con mezzi interdetti alle superstrade stesse.
E lì, nel tratto di territorio ricompreso tra Narni e Orte, questo pasticcio si complica ancor più per la direttrice tripla composta dal fiume, dalla superstrada e dalla ferrovia. Questo obbliga quindi a decifrare una traiettoria assurda di sovrappassi, sottopassi e bretelle campestri e argini di lago.
A San Liberato mi ha fatto strada un signore a cavallo, altrimenti non avrei saputo come uscire da lì. 
 
Comunque il tratto di Narni è curioso: non devi attraversare il paese, devi invece percorrere in semicerchio tutta la collina a mezza costa su una stradina sbarrata ma aperta alle biciclette.
Lì incroci un grande cartello che ti informa di una cosa di cui non ti saresti mai accorto: sei nel “centro geografico dell’italia”, cioè proprio nell’ombelico della nazione.
Ovvero, sul parallelo 42, esattamente dove l’ importante acquedotto romano della via Formina incrocia il fiume Nera; solo che se ci vai rischi di dover chiamare i pompieri per tirartene fuori.
 
Dopo tali traversie superai comunque il Tevere, rimpiangendo i bei tempi dello stato pontificio.
Rifeci birra a Orte, e mi inerpicai sulla strada ortana verso Viterbo.
Era ormai quasi tardi per cercare alloggio per la notte e quindi appena raggiunto l’abitato di Bassano in Teverina tirai fuori il cellulare per cercare dove albergare.
Ma qui incappai in una duplice brutta sorpresa.
 
Il cellulare era scarico, a causa del navigatore a posizione cui ero stato costretto da Narni in poi, nell’incombenza di varcare il confine dello stato pontificio.
Quindi entrai al chiosco dei giardini del paese, frugai i miei zainetti alla ricerca del caricabatterie, e non lo trovai: infatti mi sovvenne che lo avevo dimenticato a Visso, vicino al letto dove avevo dormito la notte.
 
Come che sia la simpaticissima ragazza del bar mi trovò l’alloggio.
Poi frugò tra i suoi accessori di cellulare, ma invano.
Dunque mi indirizzò al ristorante lì vicino, denominato “La Fenice”, che presi come un nome augurale.
 
Avevo assoluta necessità di chiamare a casa poichè uno dei problemi infernali del cellulare consiste nel fatto che se appena non prende, o se è scarico, quelli di casa pensano subito alle varie ipotesi di catastrofe.
Ma per buona sorte “La Fenice” mi si presentò nelle sembianze della simpaticissima ragazza che serviva al banco, di nome Camilla.
Le chiesi il favore di digitarmi sul suo telefono il numero di casa mia, data la mia ansia; così potei telefonare e sistemare la cosa, ma…
 
Mentre chiudevo la conversazione sentii una voce meravigliata alle mie spalle: “Gian Luigi…”; era rivolta a me ed era stata pronunciata da una persona che riconobbi subito in preda all’incredulità: era un mio paesano, e per di più un caro amico.
Era sorpreso quanto me, tanto più che sebbene abitasse lì vicino, aggiunse, non pensava di passare in quel locale proprio quella sera.
Disse che poi aveva invece deciso di venire lì perchè tanto ci lavorava la figlia; “ah, e chi è tua figlia?”; “è lei, Camilla”.
 
In preda allo stupore abbiamo richiamato mia moglie.
Io designo queste situazioni evocando l’Angelo del Signore, almeno per ridere.
Mia moglie intanto diceva a Sandro che quando combino pasticci mi salvo sempre di culo.
Come figura letteraria è comunque meglio la mia.
 
La mattina filai dritto verso Viterbo.
La strada ortana è in condizioni pietose, però il paesaggio è magnifico e soprattutto ho avuto occasione, presso un minuscolo abitato indicato come frazione di Soriano, di vedere per la prima volta in oltre duecento chilometri una mandria di vacche.
Ormai è davvero difficile sentire greggi belar, muggire armenti, anche se gli augelli contenti svolazzano ancora per lo libero ciel: ma fino a quando? 
 
Su quella stessa rete di recinzione campeggiava un grande lenzuolo arcobaleno nel quale l’amministrazione comunale di Soriano nel Cimino si pronunciava per la pace.
Credo che le greggi e gli armenti, e gli augelli ed io, siamo totalmente concordi con tale dichiarazione.
 
Con questo animo di lì a poco mi sono ritrovato a Viterbo, ho ripercorso qualche vicolo dei tempi di scuola e rivisitato quella piazza e poi quella stazione e soprattutto il mio compagno di allora e di sempre, con una Ichnusa come testimone.
Poi mi sono involato verso il mare, ancora molto distante.
 
Tutto il territorio tra Vetralla e Monteromano mi è familiare fin da bambino.
Quindi l’ho attraversato con una specie di pace materna tutto intorno.
Mentre la temperatura si alzava, sui bordi della strada scodinzolavano ogni tanto grandi ragani verdi: mai visti in tale numero, belli e sconcertanti come non mai.
 
Alle quattro del pomeriggio ero a Civitavecchia giù al vecchio porto dei pescherecci.
Mi feci quelle banchine camminando con lentezza, con la bici per mano come davanti a casa.
Non so contare il numero di approdi di prima mattina e il numero di imbarchi all’ora del tramonto, che  mi hanno visto correre o aspettare di salire, tra quelle pietre e la nave, sempre con l’angelo del signore alle spalle. 
 
E anche ora, come ogni altra volta, era giunto il momento di tornare a casa.

IL SASSO E IL PANTANO: allegoria di un Governo e delle sabbie mobili – di Gian Luigi Deiana

IL SASSO E IL PANTANO: allegoria di un Governo e delle sabbie mobili

di Gian Luigi Deiana

Quando si butta un sasso in un pantano ovviamente si appuntano  sguardi ostili verso chi ha buttato il sasso e ciò avviene spontaneamente da parte di chicchessia.

Tuttavia oltre agli sguardi di disappunto si montano poi veri e propri giudizi di spregio, e ciò non avviene da parte di chicchessia, ma avviene specificamente da parte di chi sguazza nel pantano.

Se vale l’allegoria, Giuseppe Conte è il manigoldo che ha tirato il sasso, e l’opera di governo di Mario Draghi è il pantano.

Riflettendo anche un poco, vi sono molte ragioni per capire che il problema non è il sasso, ma è il pantano: non è Conte il pasticcione, ma è Draghi il gran genio.

Se questo è vero, ed è verissimo, il sasso sarebbe persino provvidenziale.

Purtroppo però è solo un sasso piccolo piccolo, mentre il pantano è un’acqua stagnante grande grande.

Addirittura il manigoldo che ha tirato il sasso non ha chiesto affatto le dimissioni del capo del pantano: ha solo detto che non si fida più di galleggiare a occhi chiusi.

Tuttavia il capo del pantano si è offeso, e ha approfittato per alzare la posta.

E dunque, in cosa consiste la posta?

Memori dell’emergenza covid, la posta consisteva nell’attraversamento dell’emergenza sanitaria “e” nella pianificazione del rilancio dell’economia, il cosiddetto PNRR, cioè il salvadanaio acquisito proprio da Conte nei suoi ultimi mesi di governo.

Dunque Draghi subentrava a Conte in una fase di emergenza sanitaria ormai controllabile e col beneficio di un salvadanaio propriamente eccezionale.

Sarebbe stato assolutamente ovvio individuare la priorità assoluta, per esempio ed in primis la ricucitura integrale della struttura sanitaria, dagli ospedali ai medici di base.

E per esempio, in necessaria retrocessione, le sovvenzioni ai pirati del commercio di armamenti o di impianti selvaggi di pale eoliche.

E invece no: le opzioni di priorità si sono platealmente invertite, e il pantano di acque stagnanti è diventato nel volgere di soli due anni un pantano di sabbie mobili.

Le sabbie mobili sono mobili in quanto i loro mantelli di fango scivolano l’uno sull’altro e comportano una emergenzialità continua: infatti il capo del governo visibilmente non chiude occhio ed è pieno di rughe, povero super-mario che tutto il mondo ci invidia.

E tuttavia è lui medesimo che ha trascinato l’intero paese nel grande gorgo e ne è certamente responsabile, in quanto chiunque lo avrebbe potuto evitare.

Draghi ha reclutato in piena autonomia il proprio equipaggio, che è costituito essenzialmente da signorsì di straordinaria equivocità ideologica ovvero da mini-ministri: la si direbbe la squadra di governo più mediocre di tutta la storia della repubblica.

Tuttavia ciò non traspare mai apertamente in quanto tale equipaggio gode della copertura del Presidente della Repubblica e della reticenza dei mezzi di informazione: tutto questo amalgama è il grande ceto parapolitico che sguazza da due anni nel pantano e che intende ad ogni costo continuare a sguazzare.

Insomma non si tratta di parapolitica, si tratta letteralmente di parassitologia.

Il cosiddetto Governo dei Migliori in quanto governo del parassitismo di ministero o di testata.

Così sull’emergenza sanitaria ha cominciato a scivolare l’emergenza economica, sull’emergenza economica l’emergenza della guerra, sull’emergenza della guerra l’emergenza energetica, sull’emergenza energetica la delega alla NATO (alla NATO!) della transizione ecologica, sulla delega alla NATO una deviazione della politica estera in favore di regimi assassini, su tale deviazione una accelerazione della produzione di armamenti e del relativo commercio con paesi in guerra, su tali irrespirabili emergenzialismi la secretazione degli atti e dei contratti.

Questo è, in sintesi, l’irrinunciabile Mario Draghi che tutto il mondo ci invidia.

Ora siamo nella tenaglia, tra Scilla e Cariddi: un mare di sabbie mobili genera uno stato di narcolessi.

Tutto appare come immodificabile e quindi solo il solito nocchiero può garantire il tuo sonno.

Il suo equipaggio, a sua volta, nel suo sguazzare ne ha creato il finto carisma e i suoi trombettieri di editoriali e talk show ne hanno creato la mitologia.

Questo è quanto.

Il problema non è il sasso, sono le sabbie mobili.

 

 

 

LA GENTE BIANCA: sulla percezione dello stato di guerra – di Gian Luigi Deiana

LA GENTE BIANCA: sulla percezione dello stato di guerra.

di Gian Luigi Deiana

 

Chi si muove a una guerra è necessitato alla semplificazione, in modo che restino nel suo campo visivo solo le sue proprie ragioni. 

Bastano due argomentatissimi monologhi per rendere impossibile un dialogo, dopodichè la guerra è inevitabile e la pace impossibile e la conseguenza automatica è la furia di conquista del consenso nei dintorni del campo e oltre il campo, e questa è la propaganda di guerra.

Ma giù giù, oltre la portata visiva e oltre quella tele-visiva, le proclamate ragioni non si sentono più e allora è da lì che si deve avere la pazienza di ricercare il senso, per poter risalire la china e ritrovare una strada.

La percezione di cosa sia davvero una guerra è straordinariamente stratificata, e la stratificazione di senso la più irrinunciabile, se davvero ci si dispone a capire, è sempre quella più in basso, quella più materialmente in terra.

 

Giorni fa ho attraversato la mia isola con un caro compagno per quasi duecento chilometri, da mare a mare e da monte a monte, camminavamo per dieci ore al giorno ed ovviamente non dedicavamo il tempo a parlare.

Per quasi tutto il tempo procedevamo fianco a fianco, ma per lo più ciascuno di suo, perchè viene così quando si cammina.

Vedevamo ciascuno le stesse cose, ma solo saltuariamente queste risaltavano in simultanea alla nostra attenzione.

Solo saltuariamente, eccetto “una” volta: quando risalendo una piccola valle montana la nostra strada ha fiancheggiato la recinzione di un prato smorto, abitato da un gregge di pecore afflitto e silente.

Il prato era ormai raso come una tavola insterilita e non vi prendeva forma un filo d’erba: del resto non piove da mesi e il quotidiano sofferente calpestio di centinaia di piccoli zoccoli non può che produrre un tale risultato.

Ma appena le prime bestie si sono accorte del nostro passaggio l’intero gregge si è mosso verso di noi, come una folla di mendicanti alla fame.

Ci separava la rete e ci ha unito, in qualche modo, l’impulso spontaneo all’immagine fotografica nella flebile sonorità dei belati davanti a noi.

A volte anche fare una fotografia necessita di pudore, infatti per un poco siamo stati in silenzio, per poco però. 

Perchè per una consuetudine mai dimenticata che mi porto dall’infanzia mi è venuto di parlare e le parole che mi sono venute hanno come parlato da sole, senza nemmeno la mia volontà: dicevano alle bestie che io non avevo niente per loro.

Confesso mi sono sentito improvvisamente molto triste, perchè si trattava della mia gente bianca.

Ora, fuori dall’afflizione animale e dalla tristezza umana, che poi sono “lo stesso medesimo” sentimento, mi sembra di vedere nel volgere immediato dei prossimi giorni e delle prossime settimane un panorama molto preoccupante: confidando almeno nella pioggia si può forse salvare il gregge e si può forse assicurare lo svezzamento delle agnelle, ma non si può affatto contare su una primavera di mungitura minimamente sufficiente per il pastore.

Si dovrebbe sopperire con  approvvigionamenti di foraggio e di mangime, ma non vi è più foraggio a fine inverno e l’importazione di mangimi è bloccata dal boomerang delle sanzioni di guerra.

Questa è la percezione di una guerra da parte della gente che nasce più in basso.

Procedendo verso la montagna le campagne destinate al pascolo hanno lasciato il paesaggio ai prati montani, abitati da capre, piccoli asini e mandrie brade di piccole vacche semiselvatiche: bestie certamente più favorite rispetto a greggi da mungitura chiuse in pascoli recintati ed esausti.

Ma incrociando piccoli drappelli di cavalli la visione tragica di nobili animali ridotti alle ossa ricominciava qua e là.

 

Questa è la mia gente bianca ((prendo a prestito il verso di un piccolo poema di un premio nobel, che non cito per nome poichè sono parole che appartengono a tutta l’umanità)):

“it ‘s all right, mà, I ‘m only bleeding”.

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=_CJHbfkROow

SENNORES DA SAS GHERRAS – traduzione in sardo di Master of war di Bob Dylan – di Gian Luigi Deiana

SENNORES DA SAS GHERRAS

traduzione in sardo di Master of war di Bob Dylan

di Gian Luigi Deiana

Enìde sennores de sas gherras

chi faìdes sos cannones sos pius fortes

chi faìdes sos pianos de sas mortes

e bombardades sas biddas e sas terras …

bessìnde fora tue, dae custas cortes

e tue e tue, dae sa mesa ue ti cuerras:

una cosa ti cherzo narrer crara,

lea sa màscara e ammostrammi sa cara

Tue chi nudda as fattu in cale siet logu

si non costrùere solu pro distrùere

su mundu meu lu càrculas a urrùere

ti l’as leadu pro fagher posta ‘e jogu;

penas chi ieo seo essìu dae sùere

m’as postu in manos sas armas de fogu

e cando bolan sas pallottolas a nues

dae sos ojos meos ti fuis pro chi ti cues

Ti cuas ca ses mentidore e ca ingannas

comente naran de judas in s’antigu

t’ammostras e lusingas che amigu

e cussizas ca cumbenin gherras mannas

ma ieo ti bio in ojos e in intrannas

e ti bio s’anima mala in donnia isprigu

ti bio crara sa faula e sa menzogna

comente s’abba chi currede in sa fogna

Ses tue chi preparas sos grillettos

chi àttere a’t a dèppere isparare

poi ti setzis cun fozu e pinna pro contare

bilantzas mortos, chenza pena e chenza chinna

ti cuas in domo, in cadiras, mesa e lettos,

mentres sàmbene zòvanu uttiat mudu

e dae sa carre s’impastad’a su ludu

Sa timoria pius mala pro sos bios

sa pius mala chi potad esse semenada

la sèmenas in tottue male fadada

terrore de faer naschire sos pipìos:

sa zente mia la tenes minettda

sos pipìos mios ancora non naschìos

puru chi tenzas sas bussaccas prenas

tue non ti bales su sambene ‘e sas venas

Naras ca seo inzenuu e incumpetente

e ca chistiono chenza istare in s’interrogu

chi chistiono pro faghere unu jogu

cun paraulas chi non balen propriu niente

ma una cosa crara tenzo in mente

e ieo isco bene a ue fissare s’ogu:

comente siet chi imboligas sas craes

mancu zèsusu podet sanare su chi faes

E lassa chi pota dimandare:

su inare tou est aberu tantu bonu?

t’ada a poder comporare su perdonu?

su perdonu si comporad’ a inare?

eo isco ite asa a agattare

cando sa campana e morte ti fae sonu

chi su inare chi tenes a muntone

non ti liberat s’anima ‘ae presone

E ispero chi ti morzas in disterru

che cane e chi ti morzas a s’iscuru

e m’appo a setzire in pitzu de su muru

cando passas in baulu pro s’interru

chena zente in d’unu sero ‘e ierru

calande a sutta in su lettu su pius duru

isto a ti biere, in sa die mala e fritta

nanti a sa tumba pro semper maladitta

 

 

https://www.youtube.com/results?search_query=masters+of+war+bob+dylan

 

 

 

UN MATRIMONIO E DUE FUNERALI: Julian Assange, Yvan Colonna, Madeleine Albright

UN MATRIMONIO E DUE FUNERALI:

Julian Assange, Yvan Colonna, Madeleine Albright

di Gian Luigi Deiana

Le vie del signore incrociano oggi  i destini di Julian Assange,  Yvan Colonna e Madeleine Albright: un giorno di gioia = un giorno di dolore = un giorno di ribrezzo.

Questi tre destini ci si presentano in simultanea come incarnazioni individuali di ragioni di stato planetarie, cioè un prisma attraverso cui intravvedere la pagina di storia di cui siamo parte.

Giorno di gioia: Assange potrebbe essere estradato a breve negli Stati Uniti ove lo attende una condanna a 175 anni di carcere: e tutto per aver pubblicato notizie vere sulla politica estera degli Stati Uniti.Notizie vere, nell’eterna cortina di fumo che maschera la fluttuazione della superpotenza come madre, o come madrina, o come matrigna, di tutte le guerre del nostro tempo. Julian ha sposato in carcere Stella Moris, la madre dei loro due figli;.Auguri dal mondo di buona volontà.

Yvan Colonna sarà sepolto domani a Cargese, un paese a nord di Ajaccio, dove faceva il capraio fino al giorno del suo arresto.

Il processo a suo carico resta un buco oscuro nella storia giudiziaria francese, ma la ragion di stato esigeva un colpevole eccellente, “un pastore di capre” che aveva la colpa di essere indipendentista, di essere colto e di godere di rispetto in tutta la Corsica.

Detenuto ad Arles, cioè lontano dall’isola in ottemperanza allo stile francese della consumazione penale di vita e di affetti, è stato ucciso qualche giorno fa da un detenuto jahidista particolarmente pericoloso ma curiosamente fuori controllo per ore.

È esplosa la protesta in tutta la Corsica: “tutta” la Corsica.

Il lato nuovo della vicenda è che sulla scena dolorosa e diffusa del funerale il governo francese si dispone ufficialmente ad aprire negoziati per l’autonomia corsa. Cordoglio ed auguri, dal mondo di buona volontà.

Madeleine Albright fu segretaria di stato di Bill Clinton dal 1997 al 2001.

Ereditò la gestione dell’agonia irakena provocata dalla prima guerra del golfo e lasciò a sua volta in eredità questa funzione a Colin Powell, quello delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein racchiuse in boccette.

Madelein fu la mamma delle sanzioni all’Iraq, dell’opposizione all’invio di caschi blu in Ruanda e della generalizzazione della guerra in Jugoslavia.

In una celebre intervista alla CBS le fu presentato il costo umano conseguito con la politica delle sanzioni all’Iraq, cioè la morte, accertata sull’inesorabile certificazione statistica, per fame e per assenza di medicine, per alcuni milioni di persone e mezzo milione di bambini.

La domanda dell’intervistatrice chiedeva una considerazione su un tale prezzo di vittime civili: rispose che no, non era un prezzo alto, era piuttosto un impegno morale. Questo genere di dottrina, si badi bene, è l’essenza di ciò che ormai usiamo considerare come la differenza tra le guerre immorali del novecento (oggi residuate alla Russia) e le guerre morali del secolo attuale (oggi vantate dagli USA e dai comprimari).

Nel 2016 questa donna annunciò il destino dell’inferno per tutte le donne che alle elezioni presidenziali non avessero votato per Hillary Clinton.

È difficile chiedersi oggi quale paradiso sarebbe adatto a lei.

Dies irae, signora Albright.

 

 

NUMERI: Contabilità e incontabilità della morte nell’informazione di guerra – di Gian Luigi Deiana

NUMERI

Contabilità e incontabilità della morte nell’informazione di guerra.

 

di Gian Luigi Deiana
9 marzo 2022

 

Darsi ragione dei numeri, sulla scena di milioni di storie individuali esposte al gioco di dadi della distruzione, comporta per la mente un passaggio sulla vertigine; e tuttavia questo va fatto e va fatto in proprio, poichè proprio questo, la vertigine di ciascuno, è l’oggetto di massa dell’informazione di guerra: propriamente, è l’oggetto della verità e della menzogna in senso extra-morale.

 

Per sua natura la morte non è contabile, in quanto in essa uno è tutto e la mia singola morte è con me lo spegnimento integrale del mondo: “il mondo” è infatti, in prima e ultima istanza, la mia percezione e la mia coscienza di esso. 

E’ per questo che lo spegnimento di un individuo, uno solo, è lo spegnimento del suo tutto. 

Per questa ragione fare operazioni di aritmetica sul morire dell’uno o dei molti è propriamente blasfemo, a prescindere dalla verità o falsità del conto.

 

Ma: la contabilità della guerra non è solo blasfema, è anche consapevolmente alterata e alla bisogna anche cinicamente falsa.

Questa condizione ci impone quindi di azzardare proprio ciò che non si deve fare: andare sulla vertigine e contare, e portare l’informazione di guerra al tribunale della possibile verità.

Non per un puntiglio di aritmetica, ma per il fatto che la produzione di una aritmetica faziosa e sensazionale, oggi, ne evoca e ne predetermina la realtà, domani: ogni guerra infatti, una volta innescata, procede di suo muovendo i propri automi, e può farlo proprio in forza delle alterazioni che essa ci tenta di fare.

Nella vertigine non è mai chiaro se siano gli uomini a controllare e muovere la guerra, o se sia la guerra a controllare e muovere gli uomini.

 

La contabilità, fredda quanto la morte, sa essere precisa, controllabile e pubblica: per esempio la lunga scena della pandemia ha indotto tutti gli istituti deputati a statuire nel mondo intero protocolli di conto uniformati, capillari e quotidiani.

Al contrario, la breve scena della guerra in Ucraina ha indotto tutte le agenzie più influenti a oscurare il conto reale e a sostituirlo con shock comunicativi, aloni di eroismo e aloni di demonizzazione; ma gli aloni non illuminano affatto la ragione, mentre la inebetiscono nel suo sonno: ed è questo sonno che, ora dopo ora, trasforma quegli aloni oggi fluttuanti in mostri reali domani.

 

Si pone perciò, ineluttabilmente, il passaggio nella vertigine e nel suo territorio blasfemo: mi vergogno quindi a proporre alcuni numeri riguardanti specificamente l’Ucraina, numeri che mi pongono perplessità e che nella loro proporzione vorrei mi fossero spiegati.

 

Pandemia: l’Ucraina ospita una popolazione di circa 45 milioni di abitanti, corrispondente a tre quarti della popolazione italiana.

Il covid ha prodotto circa 6 milioni di contagi e 112.000 morti in 700 giorni: ovvero 160 morti al giorno.

Per fare un paragone vicino, la Bielorussia conta 9 milioni di abitanti e fino ad oggi sul fronte covid 6.000 morti, cioè 9 morti al giorno.

Nella proporzione demografica, le vittime di Covid in Ucraina sono state il quadruplo di quelle registrate in Bielorussia.

Questa stratosferica differenza, se è reale, può essere rapportata forse alla attenzione o alla trascuratezza della campagna di vaccinazione: l’Ucraina ha vaccinato in due anni di Covid circa il 35 per cento dei suoi abitanti, cioè un terzo della popolazione, probabilmente la più bassa percentuale in Europa.

Una perplessità sull’immagine esaltante ed eroica del suo Governo in qualche modo si pone.

 

Guerra: i dati ONU sulle vittime civili della guerra in Ucraina registrano alla data dell’8 marzo, tredicesimo giorno, 406 morti e 801 feriti: tra i morti 27 bambini.

Il conto protocollare dei decessi Covid comprensibilmente non è stato aggiornato e solo Dio sa in quali condizioni si compiano le agonie di quegli ammalati, ma la contabilità registrata dalle Nazioni Unite, cioè l’ONU, ci dice che sul fronte guerra in 13 giorni vi sono state in Ucraina 35  vittime civili al giorno, e sul fronte pandemia 160 vittime covid al giorno.

 

L’agenzia ONU che produce le registrazioni sottolinea che i dati da essa prodotti riguardano le vittime accertate, e che il numero reale potrebbe essere certamente più elevato: ma qui si pone un problema.

 

Perchè i mezzi di informazione, impegnati in un volume di interpretazioni così incessante e così saturo di esperti, non dà anche il conto dei numeri e non azzarda mai una confacente interpretazione di essi?

 

Allora io provo ad arrangiarmi da me: io ritengo che, sfrondato dal sensazionalismo e rapportato alla  indubitabile quota di distruzione, il numero della vittime civili sorprende, almeno se lo si rapporta ai risultati ben più spaventosi dei bombardamenti chirurgici delle guerre analoghe recenti.

E sorprende ancora di più se si riflette sul fatto che, a fronte della incessante fabbricazione mediatica della resistenza popolare in Ucraina, non si ha alcuna chiarezza su dove e come sia disposto l’esercito ucraino vero e proprio: se esso davvero stia combattendo secondo una riconosciuta catena di comando oppure un po’ sì e un po’ no o stia aspettando.

 

Non credo che i russi riservino per la vita dei civili una maggiore premura di quanto abbiano saputo o voluto fare i loro corrispettivi della Nato e in specie le loro fotocopie americane.

Può anche essere, tuttavia osservo che potrebbero aver scelto finora addirittura di risparmiarsi, e che potrebbero da domani in poi non risparmiarsi più, se non si apre seriamente la via negoziale: ma se questa preclusione non la vogliamo, allora non la dobbiamo evocare. 

 

Non dobbiamo desiderare il peggio solo per la vanesia soddisfazione postuma dell’aver avuto ragione ad averlo detto da prima.

Quindi, tutti noi dobbiamo esigere una proporzione fra l’enfasi dei format comunicativi e la contabilità orientata alla soluzione diplomatica.

Vi sono in campo assurde rincorse nelle gerarchie dei media a chi la spara più grossa: ma vincere la guerra del falso significa perdere la guerra del vero.

E dunque, chi è senza peccato?

ATTI OSCENI IN LUOGO PUBBLICO: un battimani nel Senato della Repubblica – di Gianluigi Deiana

ATTI OSCENI IN LUOGO PUBBLICO
un battimani nel Senato della Repubblica

di Gianluigi Deiana

Il concetto dell’osceno è sempre relativo al suo tempo, sempre soggetto a una mutevolezza generazionale, sempre tacitamente in bilico fra la fondatezza e l’assurdità.

In quanto capace di legare strettamente il pregiudizio e l’istintualità, esso è anche intrinsecamente pericoloso: è per questa ragione che dovrebbe essere sempre oggetto di una particolare attenzione critica nei sistemi educativi.

Tuttavia esso ha anche, e forse prima di tutto, una ragion d’essere insopprimibile, che prescinde da contesti specifici. Questa ragione è costituita dall’ “osceno eterno”: laddove lo sgomento, la paura e il ribrezzo insorgono insieme nella coscienza come un allarme improvviso ed estremo.

Non si tratta dell’imbarazzo riferito alla vista casuale di un bacio fra due ragazzi o fra due ragazze, che di oscenità non ne ha ombra alcuna, e nemmeno del fastidio provocato da un esibizionista che affonda le mani nel sottopancia al passaggio di una giovane donna.

No: “l’osceno eterno” è ben altro.

Esso è costituito, come esempio teatrale incancellabile, da situazioni come il grande applauso di centocinquanta Senatori di una Repubblica alla lettura dell’esito di un voto segreto su un disegno di legge, avente come oggetto il diritto alla discriminazione o la sua abiura.

Quell’applauso è stato così spontaneo, rabbioso e soddisfatto di sè che nemmeno una scena di branco ne potrebbe mai raggiungere una tale esaltazione in termini di “orgasmo”: dall’icona raggiante del senatore Pillon alla distanza voyeristica del senatore Renzi, questa pagina non si potrà mai più dimenticare.

Ma proprio in questa trionfale eternazione, in realtà, sta la verità della sua sconfitta.

Ogni malefatta a radice sessuale, in quanto ripensata nella sua contingente oscenità, impone a chi la esegue una necessità di cancellazione: ma l’osceno eterno, così reso pubblico, istituzionale ed immortale, non può essere cancellato.

Esso ha conquistato insieme il suo diritto al trionfo e la sua condanna al vituperio: per sempre.

I sondaggi di opinione rivelano ora, giorno dopo giorno, che il contenuto spirito del disegno di legge sull’omotransfobia è condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione, quasi in un rapporto di 3 a 1: 62% contro 24%; e tuttavia quel 62% fino a ieri era presumibilmente costituito da una quota cospicua di “indifferenti”: favorevoli per principio all’approvazione, ma non interessati per vicenda personale o non coinvolti da situazioni concrete.

Ora non più: il grande merito di quel voto in Senato è stato quello di avere strappato la maschera ai crociati della discriminazione e di avere tolto la benda dagli occhi a milioni di cittadini.

Si è trattato cioè di una sorta di passaggio obbligato, aderente a quella necessità storica che una grande filosofia definì un tempo “il travaglio del negativo”.

O secondo la formidabile allusione biblica, aderente alla descrizione biblica di quell’istante di illuminazione e sgomento dopo il peccato, e la visione della vera miserabile nudità: i loro occhi si aprirono, e videro.

 

 

SCALA QUARANTA: di latitudine, di temperatura e di ore di cammino – di Gian Luigi Deiana

SCALA QUARANTA

di latitudine, di temperatura e di ore di cammino

di Gian Luigi Deiana

 

(scritta due giorni prima degli ultimi devastanti incendi in Sardegna)

Ieri ho scritto una specie di rapporto su una specie di passeggiata, una camminata di 40 ore sul parallelo 40 per come questo traversa la Sardegna proprio in mezzo, da mare a mare e precisamente dalla costa di San Vero Milis alla costa di Baunei.

Ovviamente non ho fatto questo percorso con 40 gradi di temperatura, che è una cosa da non fare nemmeno a 30: il rischio di incendi o anche solo di mancanza di sorgenti è sempre reale.

Tuttavia quando si è costretti a giocare a rimpiattino con le ore di mezzogiorno, come oggidì, aprirsi una bella cartografia dell’isola sul tavolo di cucina e farsi una camminata immaginaria è sempre un bel modo di trascorrere 40 minuti: quindi, anche perchè qualcuno me lo chiede, torno sul tema cercando di descrivere con più dettaglio le singole tappe.

1: S’ARCHITTU – MONTIFERRU – TANCA REGIA, 8 ore:

Il bello di questo tratto sta nel fatto che puoi salire dal livello del mare a mille metri di quota in sole tre ore. Dalla borgata di S’Archittu devi sfiorare Cornus, luogo della storica battaglia e poi della prima  radicazione cristiana.

Di lì cominci a salire verso la piana montana chiamata Sos Paris, densa di lecci immensi e benedetta da una Madonnina.

Da noi alle Madonnine piace dimorare sulle alture.

Per salire a Sos Paris si transita da un ameno pianoro centrato su un laghettino di servizio antincendio, ove si trova un rifugio e una magnifica vista sul mare.

Poi da Sos Paris fai la sommità tirando a nord verso un’area di pascoli alti chiamata Pabarile.

Pabarile è spazzata sempre dal vento e le nubi vanno veloci.

È così che offre una visione di cento chilometri, fin oltre il Gennargentu e fino alle cime retrostanti del Supramonte: il cono di Sa Pruna e la pala di Monte Novu, lì dove dovrai passare di qui a due giorni.

Da lì da Pabarile, o per Badde Ùrbara piena di antenne o direttamente giù verso il canyon di Sos Molinos, sei a Santu Lussurgiu.

Santu Lussurgiu è un luogo particolare, anche solo per il fatto che il paese è sorto dentro il cratere.

Ciò infatti ha favorito una psicologia dell’autosufficienza nella risoluzione dei problemi della vita, e ha determinato quindi una reale peculiarità del luogo e di chi lo abita.

Potresti pernottare lì, ma poichè hai davanti venti chilometri di asfalto per traversare l’altopiano fino a Ghilarza, tanto vale che ne copra subito almeno metà fermandoti poi alla borgata di Sant’Agostino, o ai Nuraghi o a Tanca regia;

2: TANCA REGIA – PONTE OMODEO – STAZ. FORESTALE NEONELI, 8 ore:

Ghilarza, se ci si presenta per la causa dei popoli e in particolare, quanto a me, per la causa del prigioniero politico Abdullah Öcalan, presenta come grande motivo di interesse la casa di Antonio Gramsci.

Gramsci è un riferimento politico e filosofico fondamentale per come i kurdi guardano all’Europa: quindi di qui si deve passare.

Gramsci è un ponte della storia, tracciato dal novecento verso l’epoca che stiamo vivendo: ma questo lo capisce chi vi sta passando ora, più che noi che crediamo di esservi già passati.

Il ponte geografico invece, superato l’altopiano, è il ponte sul lago Omodeo.

Di qui in due ore devi raggiungere il santuario di Santa Maria di Turrana: puoi farlo su una stradina asfaltata in prossimità di Sorradile, o su uno o l’altro dei crinali che segnano il magnifico canyon del rio Boele, cioè in costa raighina o in malocchis nel territorio di Ardauli: però in questo caso non devi andare da solo: infatti è il tratto più intrattabile di tutto il quarantesimo parallelo.

Santa Maria di Turrana ispira una sensazione di pace ed invita a non avere fretta.

Insomma ti benedice, poi ti lascia andare sulla filiera di Domus de Janas verso il paese di Nughedu e di qui, in un paio d’ore, alla stazione forestale di Neoneli: bella di graniti, di bosco nobile e di cervi e daini.

La sorgente che la nutre si chiama ‘Assai’, ma nella fantasia toponomastica il nome più invitante è Sennoredda, la signorina: è un bel nome, se si pensa che indica una complicatissima altura di labirinti di granito.

3: STAZ. FORESTALE NEONELI – LAGO TORREI – MONTE SPADA, 8 ore:

La preghiera del mattino, appena ti alzi nel bosco sotto Sennoredda, ti impone di andare a Sa Crabarissa, la regina di tutto l’orizzonte: una che ha visto nascere e morire tutti i potenti della terra, dai faraoni agli imperatori romani e ai grandi papi.

Ma lei non muore.

Di qui devi dirigerti al paesino di Tiana e hai due facili modi per farlo, dal villaggio nuragico di Urbale e Su Mullone o dal paese di Teti.

Poco oltre Tiana, sulla statale verso Tonara, si incrocia una antica gualchiera, cioè un complicato macchinario di pestaggio della lana azionato a energia idraulica: quindi c’è un fiume.

Il fiume si chiama Torrei e di qui esso va risalito su una pista adiacente.

Dopo tre o quattro chilometri ci si trova sotto una diga, poichè le acque di Torrei sono in realtà custodite in un bacino lacustre realizzato decenni fa per riservare l’acqua potabile alla vasta zona a valle, fino al Tirso.

Dal lago di Torrei si deve risalire allo stradone Desulo-Fonni, di nuovo sopra mille metri di quota, in prossimità di Tascusì e più precisamente al curvone di Genna Jacca: non è facile, si deve proprio salire sul crinale del versante a nord del lago, sulla parte di Fonni, e quindi da Genna Jacca puntare sull’ampia spalliera nuda del Bruncu Spina chiamata dai desulesi Su Divisu.

Cioè bisogna oltrepassare il vallone del rio Aratu.

L’alternativa è un lungo giro sul versante desulese, verso Artillai. Come che sia, ora marci per ore sulla quota dei 1500.

Superare Su Divisu avendo come riferimento visivo la sagoma di Monte Spada non è difficile, ma è comunque lungo.

Come che sia, valicato Su Divisu ritrovi la bretella stradale diretta a Bruncu Spina: qui ci si può fermare, precisamente in prossimità dell’ingresso forestale di Genna Duio ovvero dalle parti di un agriturismo a un centinaio di metri da lì, chiamato Separadorgiu.

E pensare che stamattina eri giù a Neoneli.

4: MONTE SPADA – CORREBOE – FUNTANA BONA, 6 ore:

Ora che sei ai piedi di Monte Spada devi individuare necessariamente Genna Duio: si tratta di uno spartiacque decisivo ma anche facile da raggiungere.

Di qui va seguito il filo di cresta e in due ore ci si trova a Correboe, da sempre uno snodo cruciale delle direzionalità dei sardi.

Infatti su sopra c’è di nuovo la Madonnina.

In arrivo a Correboe il monte è impervio ed è bianco a sud e nero a nord.

Era chiamato monte bruttu, cioè monte sporco.

Poi però la Madonnina è bella pulita e guarda tutta la Sardegna del sud.

Tu però devi proseguire a est e quindi devi incrociare il tratto iniziale del Flumineddu.

Dopo un paio di chilometri il fiume presenta un’ampia ansa e curva decisamente verso nord, per buttarsi a Gorroppu.

È prima di quest’ansa che devi abbandonarlo risalendo la china di monte Maccheddu, poi Fumai, sul versante orgolese.

Fumai è un posto speciale, uno di quei luoghi pervasi da una specie di spiritualità.

È secondo me il luogo più spirituale del nostro quarantesimo parallelo.

Inoltre è molto comodo in quanto domina Funtana Bona, ed è quindi prospiciente la stazione forestale.

A un chilometro più a est si staglia il suo gemello, lo spettacolare monte Novu che vedevamo l’altro ieri da Pabarile, cento chilometri a occidente.

5: FUNTANA BONA – FENNAU – GENNA SCALAS, 6 ore:

La preghiera del mattino si fa ovviamente in cima a monte Novu: richiede un sacrificio di qualche decina di minuti, e si deve fare.

Sali su, guardi a giro il panorama e poi dici ‘oh Cristo’ e così hai fatto la preghierina.

Poi ridiscendi e cerchi la strada per l’ovile Coneai ed il guado sul Flumineddu chiamato Badu Otzi.

Di qui risali il versante di Urzulei e ti devi di nuovo fermare per ragioni spirituali: hai sotto i piedi un semicerchio di Tombe dei Giganti di incredibile potenza estetica, cioè di vera potenza estatica: il luogo si chiama S’Arena.

Dai contrafforti de S’Arena devi planare sull’ampia vallata di Fennau: essa appare, più che come una piana, come il ventre idrico del grande Supramonte che di lì si stende fino a Gorroppu.

Fennau è abitato da asini e qualche silenzioso gregge di pecore; è sovrastato da un lungo massiccio calcareo denudato e di un colore bianco che fa stringere gli occhi.

Il fieno sembra sussurrare: Fennai è un luogo meraviglioso per starsene qualche ora da soli.

Ma tu non devi andare a Gorroppu: tu devi andare verso il mare e quindi da Fennau ti devi indirizzare sempre a est e precisamente verso Campu Oddeu, il campo di Dio, e di qui seguire la strada spettacolare sull’ampia cengia che sovrasta Urzulei: superato il curvone sei quindi sulla statale orientale, la mitica 125 trafficata da capre, vacche e motociclisti.

Sei al km 175 dell’orientale e per stare sul parallelo 40 devi andare a sud, verso Baunei.

Potresti arrivare in paese stasera stesso, ma tanto vale riposare verso il km 165.

Vi è dappresso alle gallerie la cantoniera di Genna Scalas e appena sopra un’altra stazione forestale.

Ormai siamo quasi arrivati.

6: GENNA SCALAS – BAUNEI – PEDRA LONGA, 4 ore:

Ecco quindi il tratto più facile, tutto in discesa e tutto magnifico per quanto tutto asfaltato: è il gioiello stradale della 125, e qualche dozzina di chilometri di asfalto possono pure essere perdonati: infatti non richiedono pentimento.

Tra Genna Arramene e il paese si sfoglia sotto il tuo sguardo la grande pianura.

La china è precipite e quando appare il campo di calcio ti viene subito da pensare che se un centrattacco tira troppo forte, il pallone finisce almeno almeno a Lotzorai.

Vi è intorno un nuraghe grandioso e quindi immagino che un campo di pallone così ardito sia stato costruito proprio a quei tempi.

Come che sia, ora siamo a Baunei e con un’altra ora di discesa torniamo all’angelico parallelo 40, giù a Pedra Longa.

Vi è tuttavia un’alternativa alla strada asfaltata, su da Genna Scalas: prendere verso est la codula che confluisce sul vallone di Sisine e di qui risalire al Golgo, la voragine più paurosa e più attraente dei grandi calcari isolani.

L’altopiano del Golgo dà poi subito sul mare, e il luogo magicamente più vicino è Goloritzè.

Goloritzè, Monte Santu e poi Pedra Longa segnano la linea di costa.

Gli appassionati la chiamano il Selvaggio Blu.

 

È lì sul mare, all’inizio di questo sentiero della passione, che il parallelo 40 lascia la Sardegna proprio sull’esaltante picco di Pedralonga, proteso dal mare al cielo come in un bacio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GENOVA, 20 LUGLIO: “un giorno come tanti, un mare senza vento, non vedo un cambiamento” – di Gian Luigi Deiana

Grazie Gian Luigi

GENOVA, 20 LUGLIO: “un giorno come tanti, un mare senza vento, non vedo un cambiamento”.

di Gian Luigi Deiana

 

I sardi vedono Genova entrando dal mare, col groviglio dei palazzi oltre il groviglio del porto e il groviglio delle colline sopra quello dei palazzi.

Visti dalla nave che si avvicina all’approdo, i primi piani scivolano su quelli più lontani, e le grandi gru sugli alveari di case, come nel campo visivo di una grande macchina da presa.

Non sono in grado di contare tutte le volte che siamo passati di qui, da bambini, io e i miei fratelli presi rigidamente per mano, nelle avventure migranti dei miei genitori, come migliaia di altri.

Era dura, ai tempi, ma non si è mai creata in noi un’immagine di Genova come città ostile.

Col tempo abbiamo anche imparato ad associarla alle canzoni dei suoi poeti, alla sua fedeltà partigiana, e al coraggio esemplare dei suoi preti per strada.

Poi venne il tempo dell’alternanza, quella di sbarchi gravidi ora di riso ora di pianto.

L”otto giugno del 1976 fu ucciso a colpi di pistola il fratello di mio padre, poco dopo mezzogiorno, a cento metri dalla stazione dei treni per il nord.

Aveva accompagnato il giudice Coco a casa e lo aspettava di nuovo in macchina. Proiettili bucarono il giornale che stava sfogliando al volante.

Vennero altre volte, e ora ero io a prendere i bambini per mano, quando andavamo in vacanza qua e là.

Poi verso la metà di luglio del 2001 venimmo invece in una moltitudine variopinta, dalle varie isole e metropoli di questa Europa rivestita con abiti nuovi per la festa senza fine del libero mercato: erano venuti i giorni del G8, quelli della celebrazione del mondo nuovo.

Sono state scritte tante cose su quei giorni, e tutto quello che ancora oggi si legge e si scrive è ormai completamente futile: tutto, eccetto la radiografia crudele del mondo che ci è stato consegnato in quella celebrazione di allora.

Solo ieri 19 luglio 2021 le statistiche sanitarie hanno registrato una paurosa impennata di contagi, proprio ora che al 20 luglio doveva essere tutto finito, e contemporaneamente i grafici della finanza hanno registrato un pauroso tracollo delle piazze borsistiche mondiali.

Le polizie fanno ridere di fronte a questo spettacolo.

Buon giorno Carlo, oggi siamo qui ancora per noi e ancora per te.

Da quel giorno io sono tornato altre volte, e una volta importante per iscrivere mio figlio a questa università.

Ogni volta i passi mi hanno portato da quell’ombra di via Balbi, dove proiettili uccisero un uomo che mi era caro mentre leggeva il giornale, a quell’ombra di piazza Alimonda, dove proiettili uccisero un ragazzo che come tutti noi altri cercava il suo spazio per parlare. Risolvere le cose a proiettili: quale demoniaca stupidità.

Quel giorno fummo bloccati sotto il sole accecante, in decine di migliaia, con le sirene incessanti delle ambulanze e le parolacce e il sangue, fino a quell’esito fatale.

Non serve descriverlo ancora.

Oggi però ne parliamo appena di nuovo.

Fra qualche ora torneremo in piazza Alimonda; intanto stamattina si tiene l’ultima assemblea di questi giorni di ricordo, qui a Genova, la riunione internazionale dei Forum che ha per titolo “voi la malattia, noi la cura”.

Qui è la piazza del palazzo Ducale.

È bella, qui di fianco ci sono due mostre, una riguarda le contestazioni del G8, e si intitola “Cassandra”, e una dedicata ai fotografi della Magnum e soprattutto all’Italia fotografata da Robert Capa.

Il tempo ritorna, il problema è capirne la strada.

“Voi la malattia, noi la cura”?.

Ho sempre un granitico moto di dubbio su queste divisioni così certe.

Se “voi” è il potere politico-economico vigente e “noi” è questa convergenza di buone volontà di ciò che resta di allora, più umilmente direi che voi siete la malattia, e che noi non siamo la cura.

Vorremmo esserlo, ma è ora che il testimone passi anche di mano.

Ragazzi miei, figli di questo mondo, non lasciatevi sbranare da quello che si vuol fare arrivare: ancora più liberismo, ancora più integralismi religiosi e razziali, ancora più menzogne, ancora più polizie, ancora più demoni.

Comprendere e perdonare, comprendere e combattere: noi ci saremo.

 

Buon giorno Genova, buon giorno Carlo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CANZONE DEI FUOCHI DI SAN GIOVANNI (ARDAULI, crepuscolo dell’acqua muta: canzone per l’acqua, il fuoco, l’erba e le stagioni) – di Gian Luigi Deiana

CANZONE DEI FUOCHI DI SAN GIOVANNI

(ARDAULI, crepuscolo dell’acqua muta:
canzone per l’acqua, il fuoco, l’erba e le stagioni)

 

A bortas s’abba es muda
a bortas canterina
lughet in sa pischina
curret in sa campagna
tronat dae sa muntagna
cun undas de terrore
ma in rigas de suore
sunde’ sa fronte nuda

A bortas s’abba es muda
a bortas canterina

A bortas mud’ es su fogu
sutta de su chinisu
a bortas chen’ avvisu
si pesat a su ‘entu
cando zegu e violentu
brusat buscu e pastura
tremendu in sa natura
ma bellu in sa foghina

A bortas s’abba es muda
a bortas canterina

A bortas s’erba noa
istentat meda a crèschere
a bortas in d’un’ arbèschere
faet sa terra che isposa
e s’abe e sa mariposa
bolan dae frore a frore
a sole e a su lentore
in s’erba pius minuda

A bortas s’abba es muda
a bortas canterina

Fogu in donnia foghile
abba in donnia funtana
erba in tottu sa piana
e sémene ab ampra manu
s’attonzu faet su eranu
e lampadas su cabudanni
bivat santu juanni
e-i sa zente contadina

 

A bortas s’abba es muda
a bortas canterina

 

Gian Luigi Deiana

 

 

SOLSTIZIO: di Gian Luigi Deiana – 20 giugno 2021 

SOLSTIZIO
di Gian Luigi Deiana
20 giugno 2021

Solstizio: oggi è il compleanno della terra, da qualche miliardo di anni.
Io un po’ meno, ricevo auguri dagli amici ma la terra ne ha maggiore necessità di me.

Non nascondo di averne venerazione, proprio un anno fa le dedicai mille chilometri di bicicletta buttandomi al giro litoraneo di questa nostra Isola antica e paziente.
Quest’anno invece le ho dedicato la traversata a piedi sulla sua cintura di monti, sulla linea del quarantesimo parallelo.
Due giorni fa ho camminato da Correboe a Genna cruxi traversando i Supramonti, e giungendo praticamente alla fine.
Ho una breve tappa ora fino a Goloritzè, ma l’accesso è a numero chiuso, poi sono sotto vaccino e fuori ci sono quaranta gradi.
San Pietro del Golgo è paziente e aspetterà, oppure mi butto su Perda Longa che merita come gli splendori della creazione.
Trovarsi in pieno mezzogiorno nella piana di Fennau, dopo aver disceso i primi chilometri del Flumineddu tra pacifiche mucche, fa un effetto allucinatorio.
Fennau è un luogo carico di pathos, disseminato di tombe di giganti e rocce bianche.
Trovarvisi in piena solitudine aiuta a misurare la propria effimera presenza e conforta.
Proprio lì in mezzo mi sono imbattuto in una specie di torta di compleanno della terra.
Tutti i convitati erano in frac.
Ringrazio chi mi saluta oggi e rimando alla natura questo augurio.
Metto qui qualche foto: la Madonnina di Correboe e una bandiera importante per me.
La torta di Fennau con la gente in frac e la traccia di percorso che ho seguito, da S’archittu a Badde Urbara, a Losa, a Santa Maria di Turrana, a Sacrabarissa, alla gola di Torrei, e poi Tascusì, Bruncu spina, Genna duio, Correboe, Fumai, monte Novu, e infine Fennau e Genna cruxi.

Buon compleanno, terra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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BOMBE E BAMBINI aritmetica israeliana – di Gian Luigi Deiana

BOMBE E BAMBINI

aritmetica israeliana

di Gian Luigi Deiana

Il premier corrotto Benjamin Netanyahu inventa una guerra per disporre di un diversivo utile ad evitare la sua schifosa uscita di scena.

Con questo ribadisce la sua vocazione primaria, la morte senza nemmeno la pulsione di morte: la vocazione di uno stragista puro.

Il pretesto che adduce in pubblico, e che semplicemente ammanta la sua estrema malvagità personale, riguarda i fantomatici capi di Hamas.

Uccidere un Hamas, in genere inventato e sempre senza nome,  giustifica il tracollo di un palazzo di venti piani.

Quanto al bombardamento del palazzo dei media, una volta reso chiaro che non vi era alcun Hamas con nome  e cognome e carne e ossa, il grande impostore ha ripiegato sulla versione “attività” di hamas.

Vigliacco e falso.

Aritmetica: metà dei morti di Gaza sono donne e bambini.

Per la precisione, un terzo sono bambini: i bambini sono la traduzione reale della malvagità allucinata di un simile capo di governo e delle sue bande omicide.

L’allucinazione a caccia di un Hamas, regolarmente inventato, si traduce per ora in cinquantotto bambini morti, regolarmente morti, e molte centinaia persi, feriti, amputati o semplicemente bruciati.

Vi è stato mai un capo di Governo allucinato e malvagio un pò prima di questo piccolo stupido Benjamin, solo poco tempo fa?

 

 

NON DI SOLO COVID MUORE L’UOMO muore anche di pulizia etnica e di selezione sessuale: di Gerusalemme, di Kabul, e di omertà – di Gian Luigi Deiana

NON DI SOLO COVID MUORE L’UOMO
muore anche di pulizia etnica e di selezione sessuale: di Gerusalemme, di Kabul, e di omertà

di Gian Luigi Deiana

La prima causa di morte, in realtà, è oggi l’informazione che nasconde facendo finta di informare: si tratta di una morte sui generis, ovviamente, cioè di una semplice e lenta eutanasia della mente, ma propinata a milioni; funziona come se i professionisti dell’informazione agissero come quell’infermiera inappuntabile che ha fatto il record di seicento omicidi dolci prima di essere scoperta.
Possono farlo perchè appare normale che si dedichino venticinque minuti di telegiornale all’aggiornamento covid e alle sue chiacchiere e poi un minuto a morti sul lavoro, uno allo scudetto dell’inter, uno a duecento feriti alla spianata delle moschee, uno alla partenza del giro d’italia, e uno a una strage di ragazzine in una scuola femminile di Kabul.

È sconfortante trovare ogni volta come la gerarchia delle notizie rifletta i silenzi, i diversivi e le deviazioni della politica costituita, e in particolare del ministero degli esteri.

Tuttavia soppesare la gravità o la lievità dei fatti e riflettere sulla loro relazione sottesa resta necessario, e tocca a noi: a me e a te.
Quando Dio ti chiede: “cosa è successo a tuo fratello?”.
Tu non puoi rispondere “sono forse io il custode di mio fratello?”.

Oggi 8 maggio, con un indomani edulcorato e mite in cui si spaparazza la festa della mamma, siamo tenuti a connettere il legame analogico tra la violenza antipalestinese a Gerusalemme e la violenza antifemminile a Kabul: nell’essenza degli atti non vi è differenza, ed è per questo che l’adozione di due misure diventa complicità col delitto.

Con quale diritto il governo israeliano lancia lo sfratto di un intero quartiere palestinese per assegnare le case ai mitici “coloni”?
E che cosa sono questi “coloni” se non i quadri della guerra razzista del sionismo, ovvero le avanguardie della pulizia etnica israeliana, cioè oggi i terroristi di strada di Netanyahu?

Con quale codice d’onore i guerrieri della virilità, i talebani afghani, montano un ordigno in una scuola femminile, perchè il peccato mortale delle donne è leggere e scrivere, mentre la loro realizzazione esistenziale deve restare nel basso ventre?

Perchè quel quartiere di Gerusalemme, perchè quella scuola di Kabul?

Di cosa mi informa l’informazione?
Da cosa mi tutela l’omertà del mio governo?

Sono forse io il custode di mio fratello?

 

 

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