L’ IDILLIO E L’ INFERNO: un viaggio nel purgatorio jugoslavo – di Gian Luigi Deiana – 13 agosto 2023
L’ IDILLIO E L’ INFERNO: un viaggio nel purgatorio jugoslavo
di Gian Luigi Deiana
13 agosto 2023
La Jugoslavia è come una specie di gioco, ma ogni volta sei tu che devi stabilirne le regole anche solo per viverla qualche giorno: è laborioso percorrerla, più difficile descriverla, impossibile capirla.
È in tutti i sensi una materialità aggrovigliata, che genera un continuo aggrovigliamento di stati d’animo: non solo per chi ci transita per qualche giorno, ma anche per chi ci vive la vita e per come si è cucita e sfilacciata la storia.
Quindi richiede pazienza: in termini vaghi si può dire che essa è il territorio dei Balcani, e che la presenza umana vi si è sempre costituita come balcanizzazione: cioè l’ordine del disordine, l’unità della divisione, e parentesi di pace dentro parentesi di guerra e sottoparentesi di guerra dentro sottoparentesi di pace.
Ma di fatto questo luogo non ha nemmeno un nome definito, perchè anche il nome Jugoslavia è solo un artificio linguistico.
È un luogo con molti nomi, o un nome con molti luoghi.
Il linguaggio è molto vocalico e nelle conversazioni sembra quasi un canto, però nella scrittura può essere consonantico fino all’assurdo, se solo per intendere “Trieste” devi scrivere “trst” come in stenografia.
La Jugoslavia (termine appunto approssimativo, improprio, e ingiustificato) deve quindi essere intesa come una geografia con una molteplicità di storie, o una storia con una molteplicità di geografie: dipende da come organizzi il tuo gioco, o il tuo viaggio, o più precisamente il tuo “pellegrinaggio”.
O se sei di lì, da come intendi la tua identità, o la tua differenza.
Qui si impara l’umiltà necessaria ogni volta che si va in casa d’altri, o la durezza necessaria di quando si manifesta l’incertezza della casa propria.
Qui, dove ogni luogo è di qualcuno e di nessuno.
Insomma nelle Jugoslavie devi accettare di essere un pellegrino, o un viandante, piuttosto che un turista in vacanza.
Quindi devi ogni volta andartene con un tesoro di malinconia, una fratellanza inespressa, e una promessa di tornare con una speranza più forte: sei in viaggio nel tuo purgatorio, forse il più emblematico purgatorio dell’umanità, ma a cielo aperto.
Mio padre ci venne nel 1942, quando aveva diciannove anni e ci fu l’invasione italiana: questo restò così il luogo dei suoi pellegrinaggi mentali per tutti gli inverni della sua vita.
Io ci venni per la prima volta nel 2003, quando cominciò a finire l’ultimo groviglio di guerre e riuscii a girare con rotte di autobus appena ripristinate, spesso costrette a tratturi per evitare i segmenti di strade minate, o a trasbordi su taxi speciali per attraversare i ponti più contesi dalle parti in conflitto nelle città decisive.
Era la settimana del natale ortodosso, e dopo visite di strazio su cimiteri con nomi islamici o nomi bizantini, Mohammed o Vasil, a Mostar, Sarajevo, Foca, Podgorica, Dubrovnik, feci in tempo anche ad assistere al rito di natale alla chiesa ortodossa di Spalato, prima della nave.
Poi siamo tornati ripetutamente, in pellegrinaggio familiare, e così anche ora, circa trent’anni dopo l’inferno.
I segni della pacificazione sono ormai percepibili dappertutto, nel senso che il purgatorio si sta proteggendo dai propri abissi.
È pieno di cicatrici, cioè di ferite risanate, ma soprattutto di cicatrizzazioni mai curate, che tuttavia col tempo si sono immunizzate da sè.
I borghi sono rinati con soluzioni urbanistiche anche molto gradevoli, e così gli insediamenti industriali e le fattorie: ma ovunque, nelle città in pieno centro come nelle campagne in piena marginalità, restano gli scheletri delle case in pezzi, su cui gli arbusti più tenaci nello spaccare muri o semplicemente il lenzuolo della foresta tirano su giorno dopo giorno il loro velo pietoso.
Il tormento della geologia e la cicatrizzazione delle ferite sono ciò che qui possiamo chiamare impietosamente il paesaggio.
La Bosnia è il cuore di tutto questo: ma anche dire “la Bosnia” è una pigra approssimazione.
Come che sia, la Bosnia è geograficamente proprio una specie di cuore, complicato come ogni cuore e ricompreso tra il Danubio ed il mare, e tra la Sava e la Drina.
Però le è quasi interdetto il mare, salvo per il corridio di foce della Neretva, e le è quasi interdetto il Danubio, se solo si considera l’ossessione che ha generato l’inferno nel corridoio di Srebrenica.
Insomma ciò che chiamiamo Bosnia è oggi una composizione costituita nel suo centro dal territorio della Bosnia-Erzegovina, cioè la grande piana di Sarajevo, o del fiume Bosna, e la grande piana di Mostar, o del fiume Neretva, e dalla catena montuosa che separa queste due pianure.
Ma questo cuore del cuore, coagulo di storia bizantina e ottomana, ortodossa ed islamica, zingaresca ed ebraica, che oggi si chiama Repubblica Federale di Bosnia-Erzegovina, è a sua volta circondato da una specie di grande ferro di cavallo, che gira dal confine croato al confine montenegrino e che si chiama oggi Repubblica Serba di Bosnia, Srpska.
Essendo così ampio, il ferro di cavallo ha anch’esso di fatto due capitali, Banja Luka e Foca.
Ma è spezzato in ambedue i suoi rami da almeno due zone ibride ad esso interne, evidentemente determinate dalla non risolvibilità della stratificazione etnica, religiosa, clanica ecc.: per esempio Goradze, a sud, o Bosanski Petrovac, a nord.
La Bosnia, se accetti di percorrerla con una umiltà pellegrina, diventa così il tuo specchio, la geografia della tua illusione di identità, della tua incertezza e della tua perdita: diventa il tuo desiderio di salvezza, il tuo amore per la creazione, il tuo bisogno di fratellanza, la tua tragedia, la tua poesia, il tuo idillio.
L’idillio credo sia connaturato all’animo dei Balcani.
Una volta abbiamo incrociato, nella montagna albanese, un vecchio contadino che suonava una nenia interminabile su uno zufolo di pvc, ricavato da un tubo domestico mentre pascolava due vacche.
L’altro ieri abbiamo incrociato un bambino, accucciato ai margini del vecchio ponte di Mostar con un piccolo zufolo colorato, e con il flusso incessante della folla nei pressi del minareto.
Un vecchio e un bambino, due bestie immote nella campagna e una folla impaziente nel calendario del turismo, e una identica nenia nell’aria.
La solitudine nella folla è un altro aspetto di questa consuetudine, all’idillio e alla sua fragilità.
Le piazze centrali dei borghi sono animate al mattino dalle donne indaffarate negli approvviggionamenti domestici, una a una, in foggia cristiana o in foggia musulmana, o in pantaloncini come usa oggi tra le giovani e le mammine.
Ma la sera sono piene di tutta la gente, totalmente miscelata per età e condizione: l’esatto contrario della folla solitaria che ha vinto fra noi di questa parte, e ha praticamente sconfitto la nostra socialità.
Sarajevo, come anche Mostar ma molto di più, costituisce un caso particolare.
Negli ultimi vent’anni ha calamitato decine di migliaia di nuovi abitanti col risultato di una espansione urbana travagliata e rischiosa sui ripidi fianchi delle colline.
Del resto la corona di monti della Srpska incombe da vicino sulla città.
Quindi la città storica, pressata ancor più dall’imponenza del turismo e dal fantasma della guerra cittadina, sembra essersi contratta su se stessa.
Temo che venga a prevalere la tentazione di perpetuare nell’immaginario presente la tragedia appena conclusa, e che la città stessa continui a respirare le sue notti e i suoi giorni col suo stesso spettro, che rischia di tenerla prigioniera proprio nel suo darsi come spettacolo.
Ai tempi di quelle guerre, dal seno del genio noto come Pink Floyd nacque un’opera intitolata “The division bell”, la campana della divisione.
I simboli sonori, come i suoni di campana o le preghiere di minareto, segnano questa tensione: unire a prezzo di dividere.
Tutta la jugoslavia è antropologicamente, ma anche geograficamente e storicamente, il frutto di questa tensione, chiesa per chiesa, moschea per moschea.
L’esposizione delle diverse bandiere e delle loro sottili simbologie, la dislocazione dei monumenti agli eroi, per esempio sui valichi di montagna, e la modularità dei camposanti, così multiforme e così costitutiva del paesaggio umano.
Poi il Montenegro, tanto distinto quanto uguale, forse con una storia etnica e religiosa meno complicata, e praticamente risparmiata dalla catastrofe più recente come praticamente immune dalla dominazione Ottomana. Compiaciuto di un senso di fierezza, ma casa per casa contento di praticare la gentilezza.
Del resto è quello che ne riportavano i nostri vecchi soldati, che una volta sbandati dopo la dissoluzione dell’esercito italiano nel 1943 furono spesso accolti nelle fattorie o raccolti nelle bande partigiane.
Come del resto è successo a noi, alcuni giorni fa, in un deserto passo di montagna, sopra il canyon stupefacente del fiume Tara, dove una donna inizialmente freddina si è poi spesa per noi sconosciuti con una spontaneità che non potremo più dimenticare.
Poi si torna a casa, a Dio piacendo: e anche, se si può, piacendo a Dio, come dopo ogni pellegrinaggio nei suoi giardini e sui suoi abissi.
Di nuovo sul ponte della Sava, in quella Karlovac delle memorie invernali di tuo padre, di nuovo verso Trst del nostro indimenticabile amico Giorgio, Trst così musicale e così senza vocali.
Di nuovo con un grande tesoro di malinconia, una preghiera di salvezza, e l’idillio senza fine: perchè il paesaggio, in quel luogo dai mille nomi, e in quel nome dai mille luoghi, è certo un dono con dei confini, ma è senza fine davvero.