IL RATTRAPPIMENTO l’estremo rifugio delle comunità subalterne di Gian Luigi Deiana

IL RATTRAPPIMENTO
l’estremo rifugio delle comunità subalterne

Ci sono due ragioni che mi inducono a scrivere queste righe: la prima è che qualche giorno fa mi sono azzardato a ragionare sul folklore, la seconda è che sto facendo la fila all’ufficio dell’acqua; per quanto una fila all’ufficio dell’acqua rivesta un interesse folklorico di suo, qui provo a fare un innesto che ritengo importante sull’argomento precedente;

per procedere linearmente dobbiamo sollevarci dal concetto ristretto di TRADIZIONE, riportarlo al concetto più ampio di FOLKLORE e allargare quest’ultimo al concetto esteso di CULTURA SUBALTERNA; quindi la tradizione è un processo interno al campo del folklore e questo è un campo racchiuso nel perimetro della subalternità;

in prima istanza non è difficile capire cosa sia la subalternità: essa non è una cosa, ma è un rapporto tra due universi di vita ovvero tra due universi di comunicazione e di cultura: un universo egemone e un universo condizionato; il bello di questa situazione sta nel fatto che si vive contemporaneamente come in due mondi, mentre il brutto sta nel fatto che quello dei due che ci è più familiare e più caro, dalla culla alla tomba, è imprigionato nello spazio concesso dall’altro e quindi vi si vive soltanto a sprazzi o in condizioni d’animo avulse dalla mappa di realtà prescritta da quel dominio (per esempio quando ci si imbambola tra sè e sè facendo una fila o quando si sogna mentre si dorme);

gli universi culturali sono in realtà universi comunicativi, e quindi lo strumento fondamentale per andarvi qua e là è la lingua; e così, noi che insistiamo a conservare due vite simultanee, ci troviamo costretti a manovrare non solo due macchine linguistiche, ma anche due anime comunicative la cui potenza è inversa rispetto all’ identificazione che vi nutriamo: in sintesi, se parli in sardo cogli il profondo di te stesso, ma non puoi fare leva sul suo valore; se parli in italiano sei in classifica e canti tombola, ma di te stesso restano frivolezze in mano; è come disporre di due valori monetari intraducibili l’uno nell’altro;

a partire dalla lingua questo squilibrio si ripercuote su tutto l’universo condiviso, o meglio su ambedue gli universi: di questi l’uno è più formalizzato e ufficiale, in quanto dominante, mentre l’altro è più comunitario e conchiuso, in quanto subalterno;

ciò che trovo drammatico in questo rapporto è il momento in cui il grado di dominanza del primo finisce per atterrire il grado di impedimento dell’altro fino a costringere questo al “rattrappimento”;

ho trovato la più lucida e dolorosa descrizione di questo esito nella riflessione di antonio pigliaru sul codice della vendetta, e cioè sul rapporto tra due diversi universi giuridici che governano l’offesa e la pena; pigliaru descrive la condizione disperata del “rattrappimento” morale e quindi della solitudine estrema nel momento in cui il dettato giuridico dominante disconosce la storia comunitaria profonda dei rapporti morali e la traduce di forza nei suoi schemi;

l’icona ultima del rattrappimento è, per me, l’opera di francesco ciusa “la madre dell’ucciso”; la forza espressiva di questa icona compare, come citazione incancellabile, anche in una brevissima sequenza del film “banditi a orgosolo”; la domanda che sovviene, in una lingua intima e senza grammatica e sintassi, è la seguente: quanto parla un singhiozzo senza possibile consolazione, quanto parla una voce muta?

ora io penso che l’intero universo di vita della subalternità sarda corrisponda ormai a quella immagine, e che non vi sia esagerazione a percepire la sardegna stessa come la madre dell’ucciso; essa continua a respirare e a comunicare, ma sembra non poter uscire più da quella desolata cucina messa a soqquadro da una ispezione dei carabinieri; a meno che non accetti di uscire vestita con altri abiti, dotata del linguaggio chi l’ha prostrata così e possibilmente truccata;

per fare un esempio torno al cinema, che da cento anni è un campo di comunicazione estremamente importante (ma si possono fare esempi analoghi rispetto alla musica, alla letteratura, alla politica, all’arte, all’artigianato, agli studi accademici e persino al tempo libero e allo sport);

la sardegna vanta nella storia del cinema sia grandi autori che grandi interpreti (per es. nanni loy, franco solinas, amedeo nazzari ecc.), ma esclusivamente nella partita egemone del cinema italiano, tanto quanto il cagliari nel campionato di calcio; i tentativi di riscattare la subalternità, quale quello sperimentato da giovanni culumbu con “su re”, sono tanto eroici quanto nascosti, come la madre scolpita da ciusa cento anni fa e da allora prostrata a nuoro in una chiesetta; abbiamo dato i natali a quasi metà dei presidenti della repubblica italiana, con persino un saragattu ritruccato come saragat, e così leader comunisti, uomini di chiesa e uomini di legge, ma tutti eccellenti per un pantheon italiano, con la sola ombra di un pantheon sardo desolatamente vuoto;

è così per “tutte” le culture subalterne? è stato così per le meravigliose culture del mezzogiorno italiano, da palermo a matera o da napoli a lecce? o per le subalternità europee, occitane, balcaniche, gitane, lapponi o andaluse?

no, non è dappertutto così; quelli che oggi conosciamo come gli stati uniti d’america, per esempio, sono il frutto di molteplici sincretismi di assolute subalternità: sette calviniste in fuga dall’inghilterra, clan irlandesi in fuga dalla fame, famiglie siciliane in ballo nei transatlantici, deportati neri, ebrei, tedeschi, polacchi, cinesi o indonesiani… uno sterminato vascello di sbandati della terra: è vero che hanno costretto le gloriose culture indigene al rattrappimento, ma esse hanno sconfitto quello che stava strangolando loro stesse, e lo hanno sconfitto investendo alla cieca ma con la potenza della catarsi proprio nella commistione, e spessissimo nella commistione folkloristica delle loro stesse subalternità, e ne è scaturita, nel bene e nel male, una capacità creativa e una espansione egemonica di dimensione mondiale;

tuttavia la prova del nove di una capacità di apertura di un nuovo orizzonte non sta in campi definiti, quali il cinema o la letteratura, ma sta nell’anima linguistica con la quale si è in grado di prendere coscienza e di rendere ragione del proprio stato: qui sta il più grande dei paradossi, nel fatto che ci si trova in modo scontato a rendere conto della subalternità sarda attraverso il medium della lingua italiana, dell’antropologia italiana e della schematizzazione accademica italiana; tu puoi comunicare in lingua sarda quanto vuoi, ma il metalinguaggio o il linguaggio di secondo grado di questa lingua è ineluttabilmente una lingua “altra”, quella imposta dall’ egemonia e in ultima analisi dai processi di dominio, come peraltro è dimostrato anche da queste righe scritte qui; forse la posta in gioco non sta solo nella sopravvivenza del sardo come lingua di primo grado, ovvero come lingua per parlare, ma nella sfida del sardo come lingua di secondo grado, lingua per il pensiero riflesso;

la cultura non è una cosa, è un processo

 

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