L’homo pandemico di Fiorenzo Caterini

L’homo pandemico di Fiorenzo Caterini

Un interessante studio riassuntivo sui diversi approcci alla pandemia da parte dell’Asia, dell’Europa (ormai unificata nei suoi standard) e degli USA con una considerazione antropologica e una storica alla fine.

 

La parola fine alla controversia tra il modello inglese e il modello italiano per la lotta alla pendemia, sembra averla messa lo studio del prestigioso Imperial College di Londra.

Ormai esiste in Europa un unico modello strategico per la lotta alla pandemia, giocoforza sperimentato per primo in Italia, e che prende di conseguenza il nome di “modello italiano”, ma che altro non è che quello da sempre suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Una linea di separazione ha, per un attimo, attraversato il continente, ripercorrendo pressapoco il limite tra Europa protestante ed Europa cattolica. Max Weber ora rivendicherebbe i suoi studi sull’etica protestante, ma sappiamo già che verrebbe rintuzzato dalle proteste di Fernand Braudel. Quindi lascerei da parte antiche querelle. Il Regno Unito, si direbbe in coerenza con la Brexit, ha provato a distinguersi dagli standard asiatici ed europei: una gestione mirata dell’emergenza con l’obbiettivo di raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”. Olanda e Svezia hanno aderito a questa strategia, mentre la Germania, mantenendo un profilo comunicativo molto basso, è parsa ancor prima che UK, provare ad eludere misure troppo severe di controllo sociale. La Francia, come nel periodo delle guerre tra cattolici e protestanti, è parsa oscillare tra le due strategie.

Alla fine anche l’UK si è dovuta ridurre a più miti consigli, di fronte, in particolare, al dettagliato studio dell’Imperial College di Londra, che paventava il rischio concreto di mezzo di milione di morti. Il fondamentalismo dell’economia capitalista che, storicamente, vede nell’Inghilterra della Thatcher l’avamposto culturale, è crollato. Di fronte alla realtà delle cose, tutti gli stati finiranno per seguire la strategia del distanziamento sociale, o “lockdown” come si definisce oggi, se non vorranno incorrere in una catastrofe umanitaria.

Tuttavia, se il modello di lotta alla pandemia ha finito con riconoscersi negli standard di riferimento, possiamo distinguere, nella sua applicazione, tre differenti modalità, nell’Asia orientale, in Europa, e negli States.

La prima modalità applicativa è quella asiatica, della Cina, del Giappone, della Sud Corea e degli altri stati di quell’area. Dati alla mano, non c’è alcun dubbio che questo modello applicativo sia il più afficace. La Cina, investita per prima dall’epidemia, ha ridotto praticamente a zero i casi di positività al coronavirus, fatta eccezione per alcuni viaggiatori provenienti dall’estero. Il Giappone, in ansia per gli investimenti economici dell’Olimpiade, ha praticamente contenuto al minimo gli effetti del contagio. La Corea del Sud ha mostrato una efficacia applicativa che ha del miracoloso, con un controllo pedissequo dei contagi, di tanto in tanto, però, vanificata da situazioni locali, sette religiose ed altri tipi di assembramenti, che hanno comportato la recrudescenza di focolai d’infezione, comunque isolati.

Si discute di come l’efficacia del modello asiatico sia stata resa possibile grazie a misure molto rigide e restrittive della democrazia. Ciò è vero ma solo in parte, perché la cultura di quei paesi ha profonde radici in un senso della comunità e del rispetto delle regole non solo politiche, ma anche sociali. Si tratta di aree del pianeta che hanno un tasso demografico addirittura superiore, e di molto, al già altissimo tasso demografico europeo. La fiorente agricoltura monsonica nel tempo ha consentito ad un gran numero di persone di assemblarsi in spazi densi, al punto che le città asiatiche oggi sono delle metropoli gigantesche. Wuhan, dove è nata la pandemia, è una conurbazione di 11 milioni di abitanti. Sotto il profilo antropologico e sociologico queste popolazioni hanno, con il tempo, sviluppato modalità di convivenza dove la rigidità nel concepire il libero arbitrio è necessario per non far colassare il sistema. Il paradosso è che oggi quelle società, in teoria le più vulnerabili per il tasso demografico alla pandemia, sono quelle maggiormente preparate a gestire l’evenienza, anche per l’esperienza accumulata con la SARS, la precedente epidemia.

L’Europa ha avuto il tempo per prepararsi all’evenienza, potendo giovarsi inoltre dell’esperienza dei paesi asiatici che l’hanno preceduta. Ma sembra che queste prerogative, nel suo insieme, non le abbia sapute bene utilizzare.

Una cultura democratica che affonda le sue radici nell’antica Grecia, nel diritto romano, nella Magna Charta inglese e nella Rivoluzione Francese, fa fatica a concepire delle restrizioni cosi decise della libertà degli individui. Ciò è un problema nel momento in cui l’epidemia passa da valori lineari a valori esponenziali. Si è notato l’enorme fatica ad affrontare subito l’epidemia con l’unico mezzo conosciuto al momento, quello dell’isolamento sociale. Nonostante la prima drammatica esperienza italiana, già partita in ritardo, nonostante le evidenze della scienza e della matematica che mostravano l’efficacia dei provvedimenti in misura maggiore laddove sono stati applicati tempestivamente e rigidamente (clamorosa la differenza tra Codogno e Lodi con Bergamo e Brescia), nonostante tutto questo, si è aspettato fino all’evidenza di un incendio ormai incontrollato.

L’Europa non ha gli stessi strumenti politici e culturali dei paesi asiatici per gestire questa emergenza. Manca, in molti casi, di una struttura sanitaria pubblica idonea, in parte smantellata negli ultimi anni per inseguire il verbo della privatizzazione. L’Europa più disunita che unita, che continua ad essere armata, fino ai denti, per esportare pretestuosamente nel mondo la “democrazia” in cambio dell’indebita appropriazione delle altrui risorse, sconta persino una impreparazione nella produzione industriale anche dei sanitari e dei dispositivi di protezione di base.

Poi c’è la modalità applicativa degli USA, che in realtà è una “non modalità”. La nazione economicamente e militarmente più potente del mondo si sta dimostrando completamente impreparata di fronte a questa catastrofe. L’impennata statistica nella vendita delle armi, ben visualizzata dalle immagini di lunghe file fuori dalle armerie, rende bene l’idea di un nazione del tutto impreparata, anche culturalmente, alla sfida. La speranza è che gli USA, con le immense risorse economiche e anche umane provenienti da tutto il mondo, possa, con lo spirito competitivo che lo contraddistingue, vincere questa sfida, anche nei confronti del suo “nuovo rivale” cinese, un po’ come è stato nell’epoca della Guerra Fredda e della corsa allo spazio contro i rivali Russi.

Si teme tuttavia che il Chinese Virus, come si ostina a chiamarlo l’ineffabile Trump, metterà a dura prova il “way of life” americano, e temo che nei prossimi anni il virus più o meno “foreign” se lo ricorderanno più gli americani, che i cinesi.

E’ interessante notare come, per il momento, la pandemia pare limitarsi, per ragioni evidentemente climatiche e si pensa ambientali (inquinamento da polveri sottili in particolare causate dalle industrie) alla fascia temperata, che è quella del cosiddetto “mondo sviluppato”.

E non sappiamo come sarà il mondo dopo questa pandemia.

Dopo l’11 settembre del 2001 si era soliti dire che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Ma a parte la tensione per il terrorismo crescente, e i noiosi controlli negli aeroporti, il mondo pare abbia proseguito esattamente come prima, anzi, sarebbe il caso di dire ancora “più uguale di prima” Perché quell’avvenimento, in realtà, non ha fatto altro che “rinforzare” la “storia” già esistente. Dopo l’11 settembre del 2001 si è rinforzato l’ordine mondiale a guida occidentale, con politiche di ingerenza e con interventi militari aggressivi nelle aree del pianeta di maggiore produzione di risorse energetiche. Il mondo, nel paradosso, è restato più uguale di prima, si è rinforzato nell’inesorabile prosecuzione della sua storia.

Questa volta invece il virus pare avere un carattere pervasivo ancora maggiore per il modo che abbiamo di rapportarci con il quotidiano. Il virus sembra voglia trascinarci in riflessioni molto profonde sul nostro modo di rapportarci con il mondo. Il percorso che l’umanità ha fatto dalla rivoluzione industriale in poi, e negli ultimi anni con forme di individualismo e di materialismo morale che sono tracimate nell’odio, nel razzismo, in forme di egoismo e di mancanza di umanità, intercettando questa crisi drammatica, ha evidenziato i limiti del nostro rapporto tra individualismo, sempre più narcisista e paranoico, e il bene comune, e tra il bene comune e la rappresentenza sociale. L’avidità ha preso possesso delle anime, facendoci dimenticare le cose essenziali della vita.

Oggi ci pensa il virus, a ricordarcele quali sono, quelle cose essenziali, nel momento in cui ce le fa mancare. La salute come bene pubblico; il rapporto con la natura, il desiderio di passeggiare, di stare al sole o in mezzo alle piante; la socialità, il contatto umano, i sorrisi spontanei, gli abbracci. Tutte queste cose ora, mancandoci da morire, saranno, credo, rivalutate quando tutto questo sarà finito.

Anche perché le crisi insegnano sempre qualcosa. Il periodo di crescita più impetuoso che l’umanità abbia mai avuto, è stato nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale. In tutti i campi: economico, sociale, scientifico, culturale. Un vero e proprio balzo in avanti dell’umanità, dalla fine degli anni ’40 alla fine degli anni ’60, nonostante gli umani limiti che perseverano, e continueranno a perseverare ancora a lungo.

 

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