Vietato scrivere «la mafia ringrazia lo Stato per la morte della scuola» – di Daniela Pia

PER RICORDARE QUANTO ACCADDE IL 23 maggio 2009
Nel corteo che si svolse a Palermo in memoria della strage di Capaci, quel 23 maggio 2009 la presenza degli insegnanti fu importante. Sapevano che il ruolo svolto dalla conoscenza e dall’istruzione come argine alla cultura mafiosa li autorizzava a essere lì in prima fila per ricordare a tutte/i, anche a chi sul palco pontificava, che la scuola pubblica deve essere difesa come presidio di legalità. Fra loro i Cobas Scuola a raccontare questo sentire un sentire diffuso con lo striscione: «La mafia ringrazia lo Stato per la morte della scuola». A un tratto, persone dal piglio militaresco, senza qualificarsi, si parano innanzi ai militanti Cobas intimando di ritirare lo striscione. Fra loro l’insegnante Candida Di Franco tentò di opporsi, rivendicando il diritto di manifestare e rifiutandosi di ottemperare a un ordine che aveva tutto il sapore del sopruso. A quel punto fu strattonata e accompagnata in questura da quelli che si rivelarono come agenti. Poi scattò la denuncia – contro lei e altri due che, accortisi della sua assenza, erano andati a cercarla – per «vilipendio allo Stato, resistenza a pubblico ufficiale e manifestazione non autorizzata». Eppure quegli insegnanti stavano difendendo, fra i tanti princìpi, quanto sancito dall’articolo 9 della Costituzione, «l’Italia promuove lo sviluppo della cultura». Sentivano fortemente che cultura e legalità erano un binomio inscindibile e avevano tutto il diritto di urlare, attraverso uno striscione, ciò che tutte/i sapevano: è nella scuola pubblica che deve iniziare la lotta e se la scuola non viene sostenuta ad avvantaggiarsene sarà proprio la mafia. Erano tempi in cui pochi temerari osavano sussurrare di trattativa Stato-mafia eppure si sapeva. E invece contro quello striscione scattò l’accusa di «vilipendio allo Stato»: imputazione imbastita frettolosamente per giustificare la volontà di mettere a tacere una voce fuori dal coro, un ordine impartito da qualche “autorità” incapace di confrontarsi ma capacissima di reprimere imponendo il sequestro dello striscione e il fermo dei tre lavoratori della scuola. Si evince che esporre uno striscione non gradito è automaticamente «manifestazione non autorizzata», concezione assai preoccupante della democrazia. Ma, si sa, democrazia è parola di plastilina: se la usa l’autorità politica può trasformarsi in arma con cui bastonare; se la usa la gente indignata può essere motivo per essere bastonati. Gli insegnanti quel giorno furono rilasciati intorno alle 20: ne uscirono provati ma a testa alta, sapevano di essersi spesi per un azione a difesa del diritto di parola, consapevoli che quanto veniva denunciato nello striscione erano parole che perfino il prefetto aveva più volte ribadito. Sapevano che era necessario difendere quella verità perché chi educa deve essere capace di testimoniare in prima persona la forza delle parole oneste, quelle che lo stesso don Puglisi si azzardò a pronunciare quando disse «La mafia teme più la scuola che la giustizia». E lo uccisero anche per questo.
«L’educazione insomma lascia sempre la sua impronta malgrado le tendenze naturali. I semi del bene che la natura mette dentro di noi sono così piccoli e fragili che non possono resistere al benché minimo impatto con un’educazione di segno contrario»: lo diceva Etienne de la Boétie a metà del 1500 nel suo «Discorso sulla servitù volontaria» e se già allora era ben chiaro che l’istruzione rende più liberi gli esseri umani era altrettanto evidente come spesso il potere non lo voglia consentire.

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